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di Federico Ferrero

Corriere della Sera, 28 febbraio 2023

Il 9 maggio nel penitenziario scoppiò la rivolta. Per sedarla, decisa la linea interventista: morirono in tutto 7 persone. Sugli accadimenti di Alessandria del 9 maggio del 1974 le coordinate, almeno quelle, sono pacifiche. Nel gennaio più di duecento carcerati nella vetusta casa circondariale di piazza Don Soria si erano coalizzati in sciopero - per ciò che potevano - rinunciando ai momenti di socialità e dandosi a isolate resistenze passive.

Destata l’attenzione pubblica, accolsero una delegazione di giornalisti e politici con una lista lunga così di desiderata. In quella prigione, a loro dire, il concetto di punizione sovrastava il dettato costituzionale su dignità e scopo rieducativo della pena: pasti scarsi, bagni e docce in condizioni orripilanti, attività lavorative e di svago insufficienti. Il responsabile degli agenti penitenziari, poi, veniva ritenuto duro, talora crudele, e così alcuni dei suoi collaboratori.

Due anni prima, alcuni giovani detenuti alessandrini si erano già asserragliati sul tetto per protestare contro le disposizioni sulla detenzione e i regolamenti interni del penitenziario, ancora informati ai principi del Ventennio, ma la loro iniziativa era rimasta inascoltata. Erano mesi di fuoco. Le spinte verso la modernità, contrastate da muscolari resistenze conservatrici, tendevano la corda sociale italiana fino allo strappo: bussava la scadenza del referendum sul divorzio e scuoteva la società la prima propaganda armata delle Brigate rosse che, un mese prima di quelle maledetta storia, avevano rapito per la prima volta un rappresentante dello Stato, il pubblico ministero Mario Sossi.

Cesare Concu, Domenico Di Bona (condannati per omicidio) ed Edoardo Levrero (rapina) non nutrivano, probabilmente, altrettante spinte ideali. Una volta realizzato che nessuno li avrebbe ascoltati, passarono all’azione per riprendersi con la violenza le loro libertà. Alle nove del mattino di quel giovedì, armati di pistole e coltelli entrati chissà come in cella, annunciarono la rivolta nell’aula di disegno.

Stiparono nell’infermeria del carcere tredici ostaggi, compreso un collega detenuto che, ormai a fine pena, si era detto contrario alla sommossa. Scattato l’allarme grazie a un detenuto che informò un appuntato, il trio si chiuse nell’infermeria e mandò all’esterno una generica richiesta di libertà mentre i carabinieri si ammassavano nel cortile del carcere e, fuori dalle mura, lievitava il parterre: i procuratori di Alessandria, il questore, il procuratore generale di Torino, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, cronisti locali, giornalisti nazionali. A metà pomeriggio, i colloqui - a pistole spianate - prima con il pubblico ministero Buzio, poi con tre giornalisti noti a Levrero tra cui Emma Camagna, ai tempi corrispondente del Corriere.

Le richieste: duecento milioni e un pulmino parcheggiato nel cortile, a disposizione per la fuga. L’opinione dominante sembrava accomodarsi dal lato della trattativa finché, alle sette di sera, i sequestratori notarono strani preparativi, intravidero una putrella adatta a fare da ariete e mandarono a parlamentare con l’esterno il dottor Roberto Gandolfi, anni quarantotto, due figli adolescenti ginnasiali, medico del carcere.

“Fermatevi, questi sono pronti a tutto”. Invece il procuratore generale diede il via libera. Lacrimogeni nei corridoi, porte sfondate, spari: nel caos di urla, lettighe che accorrevano, agenti che entravano e uscivano dal braccio del carcere. Dissolta la nube del gas, a terra giacevano i corpi del professor Pier Luigi Campi - quarantadue anni, padre di due bambini di sei e tre anni, insegnante di estimo per i detenuti e colpevole di aver tentato di far desistere i tre dalla loro azione - e di Gandolfi. Il secondo, morto sul colpo per un proiettile alla testa. Il primo, nonostante la medesima dinamica da esecuzione sommaria, moribondo e deceduto dopo dieci giorni di cure disperate.

Neanche la prima velleità di sfondamento, fallita, fece desistere l’ala interventista della legge. Ci provarono ancora due sacerdoti, personalità locali, i pubblici ministeri della città ma il pomeriggio successivo, confidenti nella stanchezza dei tre, scattò una seconda irruzione, ancora più possente e decisa a risolvere una volta per tutte lo stallo. Cosa che, in effetti, fu: solo che Di Bona fece in tempo a freddare il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta, raggiungere nel bagno Concu e sparare in testa alla povera assistente sociale Graziella Giarola, volontaria tra gli ostaggi nella convinzione di poterli ricondurre alla ragione. Concu tentò di uccidere un altro prigioniero, don Martinengo, ma l’arma si inceppò e venne falciato da una raffica di mitra.

Di Bona si sparò un attimo prima d’essere acciuffato e, in Assise, a prendersi un quarto di secolo ulteriore di galera arrivò il solo Levrero, l’unico privo di pistola. In tutto, cinque morti più due dei tre detenuti responsabili del guaio.

Il sindaco di Alessandria presentò un esposto, presto archiviato, contro il procuratore generale e pure contro Carlo Alberto Dalla Chiesa come “ideatori e responsabili dell’azione” che, si leggeva, era stata concepita “con leggerezza e sprezzo delle vite umane”. L’argomento poggiava sull’opinione dei magistrati cittadini che avevano cercato, inutilmente, di trattare con i rivoltosi per poi vedersi scavalcare da chi scelse per due volte di sbrogliare l’impiccio con la forza. Da parte di chi agì, si provò a giustificare il secondo assalto con una serie di spari avvertiti dall’interno che, però, vennero negati da tutti i sopravvissuti e pure dalle sentenze.

Il capo della cronaca del Corriere, Arnaldo Giuliani, se n’era tornato dal Piemonte già nel primo fine settimana post strage con una notizia clamorosa, poi tumulata dalle polemiche sull’esito della rivolta: sì, certo, Concu era il capobanda, il carismatico, l’uomo coi contatti con la sinistra extraparlamentare e armata, quella del sequestro Sossi. Sì, la protesta di gennaio era stata in minima parte assecondata con qualche concessione ma nulla di sostanziale e la rabbia pervadeva le celle dell’istituto. Ma il movente del capo non era politico né sindacale: “Non so per gli altri due, che forse lo hanno seguito, ma il gesto di Concu è un’esplosione di sesso represso”, gli confidò un funzionario. “Il suo chiodo fisso è quello: un giorno mi ha detto che non ne poteva più, che voleva una donna”. A parlare a Giuliani, “una signora che ha fatto recentemente visita all’uxoricida”, suggerendo come causa autentica gli effetti collaterali dell’amor che move il sole e l’altre stelle.