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di Fabio Ferzetti

L’Espresso, 11 settembre 2022

La terribile storia dell’intellettuale eretico, nato nello stesso anno di Pasolini e come lui destinato a tirarsi addosso il peggio di un Paese feroce e reazionario.

Tutto l’amore che poteva legare un giovane intellettuale a un ragazzo di buona famiglia in un film che spreme ogni possibile dolcezza (e durezza) dalle campagne emiliane, dai portici di Piacenza, dai lunghi dialoghi fra maestro e allievo, da quella lingua insieme tenera e contundente.

Tutto l’orrore di un’Italia dimenticata e vicina in un film che non ci risparmia nulla: gli elettrochoc in primo piano con cui la “buona famiglia” tenta di curare il ragazzo, i marchettari sempre pronti a diventare violenti, le scritte sul muro (“Casa del culatòn”), il processo per plagio, reato da sempre brandito contro i “diversi”, i giudici che fanno domande offensive e l’imputato che a lungo nemmeno risponde, rifiutando di difendersi per non legittimare le accuse che gli vengono mosse. Ma anche il caporedattore dell’Unità che censura gli articoli del cronista inviato a seguire il processo Braibanti, impedendogli di scrivere “omosessuale” o “Partito Comunista”, di cui Braibanti aveva fatto parte, cosa inconfessabile nel 1968.

Infine, tutto l’investimento personale di un regista, Gianni Amelio, che ha fatto “Il Signore delle formiche” su proposta di Marco Bellocchio, come ha detto a Venezia, ma che su queste figure e questi conflitti lavora da sempre. Anche se mai in modo forse così esplicito. E viene da dire: era ora.

Sembra incredibile infatti che ci sia voluto tanto tempo per dedicare un vero film al caso Braibanti (già oggetto di un appassionante documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese nel 2020). Eppure nella storia terribile di questo intellettuale eretico, inclassificabile, non celebre, nato nello stesso anno di Pasolini (a cui curiosamente assomigliava) e come lui destinato a tirarsi addosso il peggio di un’Italia retriva, feroce e così reazionaria da non esserne nemmeno consapevole, ci sono tutte le linee di frattura su cui si sarebbero combattute le battaglie fondamentali degli anni a seguire, fino a oggi. Rievocate finalmente con tale puntiglio che qualcuno, a destra e a sinistra, già parla di un film vecchio, didascalico, insistente. Mentre se Amelio qua e là può aver l’aria di mettere i puntini sulle i è proprio per riempire un vuoto storico di rappresentazione con la consapevolezza di oggi (anche la scelta di due sceneggiatori molto giovani va in questa direzione).

Ed ecco dunque anche il Braibanti maestro e seduttore (quale vero maestro non seduce almeno in senso figurato i suoi allievi?), che non teme di essere sgradevole ma sfonda pregiudizi e resistenze per chi sia disposto a capirlo, con una forza che deve molto all’interpretazione assolutamente superlativa di Luigi Lo Cascio. Ecco, quando l’intellettuale e il suo giovane allievo (il debuttante Leonardo Maltese, prima incerto poi sempre più convincente) fuggono a Roma, il “ballo delle checche” (nessuno diceva gay allora) forse più esplicito e fiammeggiante che si ricordi nel cinema italiano. A sottolineare la pluralità di quel mondo (“Io non sono come loro, ma sono anche come loro”, dice Braibanti all’allievo stupefatto), con personaggi anche abbastanza riconoscibili sotto gli pseudonimi.

Ecco infine l’apparizione volutamente anacronistica di Emma Bonino a ricordarci che i radicali furono tra i pochissimi a mobilitarsi in difesa di Braibanti. Mentre il cronista dell’Unità, l’unico ad aver capito la vera posta in gioco nel processo, con bella invenzione drammaturgica riesce a conquistarsi la confidenza di Braibanti e a influenzare in certo modo l’andamento del processo, o almeno a guidare la nostra lettura del medesimo.

E qui sarebbe stato bello sapere quanta verità storica c’è dietro il personaggio di questo cronista coraggioso censurato dal Pci, interpretato da Elio Germano con un impeto e una convinzione che compensa anche qualche vaghezza di sceneggiatura, se Amelio, a una nostra precisa e cordiale domanda in conferenza stampa, non fosse sbottato in una violenta tirata pubblica contro il sottoscritto e L’Espresso, rei di aver strapazzato il suo “Hammamet”. Episodio increscioso che non fa onore né al talento del regista né alla concezione dei rapporti fra la stampa e il cinema che sottintende, e riportiamo per puro dovere di cronaca augurandoci che fosse dovuto alla tensione del festival.