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di Giancristiano Desiderio

Corriere della Sera, 30 aprile 2023

Tra il 1945 e il 1948 decine di migliaia di bambini afflitti dalla povertà vennero accolti da famiglie più agiate in altri territori d’Italia: con il quotidiano un libro che ricostruisce l’iniziativa di salvataggio. Nel 1946 Indro Montanelli, in un articolo per il “Corriere d’Informazione”, usò la parola besprizornye per indicare la grande massa di bambini abbandonati e pericolosi che vagavano nelle strade delle città italiane.

La parola russa riguarda l’infanzia orfana e derelitta che dopo la Grande guerra e la rivoluzione d’Ottobre comparve nella società sovietica senza che il pur pervasivo sistema di controllo comunista fosse in grado di venire a capo della condizione dei fanciulli senza famiglia.

La guerra e i bambini sono realtà e umanità che non sembrano appartenersi o che almeno non dovrebbero incontrarsi. È un’illusione. Ieri, oggi. In Ucraina i bambini sono uccisi e rapiti dai soldati di Vladimir Putin. L’infanzia è per natura il futuro di un popolo, di una nazione, di una comunità. E se con la Prima guerra mondiale il fenomeno dei bambini che divennero orfani, poveri, profughi si impose nel mondo, con la Seconda guerra mondiale la scena dell’infanzia violata si ripeté. In un rapporto dell’Unesco del 1948 si legge che in Europa erano 60 milioni i bambini che avevano bisogno di assistenza, ma la limitatezza dei fondi a disposizione delle organizzazioni internazionali consentì di portare soccorso alimentare e intervento medico a non più di quattro milioni di fanciulli per un tempo di sei mesi.

L’aiuto era doveroso e solidaristico, non c’è dubbio; ma prim’ancora era necessario perché senza soccorrere i bambini abbandonati non si poteva nemmeno lontanamente pensare di poter ricostruire la cara vecchia Europa che nel giro di trent’anni aveva dato fuoco a sé e al mondo per la seconda volta. Dalla cura dell’infanzia dipendeva il futuro civile dell’Europa. E, tuttavia, come dice il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij; “Prima sfamateli e poi chiedete loro la virtù”.

A quei bambini italiani visti e segnalati da Montanelli chi pensò? I Treni della felicità. Un’operazione di salvataggio di migliaia e migliaia di fanciulli che nell’immediato dopoguerra, tra il 1945 e il 1948, l’Unione donne italiane e il Partito comunista, insieme con tutta una serie di organizzazioni nazionali e internazionali, laiche e confessionali, statali e private, concepirono e realizzarono trasferendo decine di migliaia di bambini e bambine provenienti da famiglie povere di diverse parti d’Italia, prima da Milano e Torino, quindi in gran parte dal Mezzogiorno, portandoli in zone, ambienti, famiglie in cui le condizioni di vita erano migliori.

A ricostruire e raccontare questa esemplare storia popolare è il libro di Bruno Maida “I treni dell’accoglienza. Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948”, in edicola con il “Corriere della Sera”. L’Emilia-Romagna fu la regione che accolse il maggior numero di bambini, ma gran parte del territorio nazionale fu coinvolto in un’operazione speciale pensata per venire incontro ai fanciulli più poveri e permettere loro di affrontare la stagione invernale al caldo e con un buon pasto giornaliero. Però, non di rado i bambini si fermarono presso le famiglie che li accolsero per un periodo più lungo oppure ritornarono da chi aprì loro la casa e le braccia o si fermarono per sempre nella loro nuova casa e nel loro nuovo paese.

La formula dei Treni della felicità fu coniata dal sindaco di Modena, Alfeo Corassori, quando vide giungere i primi convogli da Roma carichi di un’umanità dolente e insieme speranzosa, se non felice. Si trattò - dice Bruno Maida - di “un’azione di integrazione e molto spesso di sostituzione dello Stato, assente in termini tanto concreti quanto legislativi, e per lo più incapace di immaginare nuove politiche nei confronti dell’infanzia dopo il Ventennio”.

Bruno Maida, che è professore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino, ha già lavorato nel recente passato sul binomio guerra e infanzia: prima con La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia e poi con L’infanzia nelle guerre del Novecento (entrambi editi da Einaudi). E, infatti, non solo il suo testo è ben documentato ma mostra come nell’operazione dei Treni della felicità o dell’accoglienza vi sia una continuità storica con gli aiuti per i bambini dei lavoratori in sciopero, con i “treni della fratellanza” che portarono i bimbi viennesi in Italia dopo la Grande guerra oppure con l’arrivo dei bambini russi a Torino per sottrarli alla carestia dopo la rivoluzione e, ancora, con i “bambini di Fiume” che giunsero a Milano e a Torino. Ma, anche se l’esperienza dei Treni della felicità rimane unica, una continuità storica nel sostegno all’infanzia si avrà in tutto il Novecento fino a giungere all’accoglienza dei bambini ucraini dopo il disastro di Chernobyl.

Questa continuità ci racconta una cosa fondamentale che lo storico, infatti, cerca di dire fin dal primo rigo del suo libro: la storia della cura e del soccorso dell’infanzia non riguarda solo il passato ma anche e soprattutto il presente. Non è un caso che nel libro si intreccino - e con grande dovizia di particolari che qui non possono essere riportati ma dovrebbe essere facile intuire - quattro questioni con le quali tutt’oggi dobbiamo fare i conti: povertà, questione meridionale, protagonismo femminile, infanzia.

Eppure, al di là delle “questioni” ciò che caratterizza la storia è proprio il bambino. Chi sono davvero questi bambini? Tutta la vicenda è fatta dagli adulti e i piccoli sono nominati come “infanzia”. I bambini assumono un volto - dice giustamente Maida - nella finzione cinematografica: Bruno di Ladri di biciclette, Pasquale e Giuseppe di Sciuscià, Pasquale di Paisà, Esposito di Abbasso la miseria. Tuttavia, la partenza, l’addio, il distacco, il treno, il viaggio non sono finzioni. È storia. Umanissima. Allora, ecco i ricordi dei bambini - Dina, Enzo, Ugo, Paola - e le scene di fame, di malattie, di pericolo ma anche di gioco che si sono portati dietro per una vita intera lasciando la Ciociaria, Napoli, Pozzuoli e salendo su un treno che li portava verso un’altra vita o li sottraeva alla miseria e alla morte accolti da una “famiglia italiana”.