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di Luigi Manconi e Lucrezia Fontana

La Stampa, 27 giugno 2022

Da Welby a Englaro fino a “Mario”, quelle battaglie che la “Coscioni” ha tolto alla clandestinità. Dalla sentenza della Consulta del 2019 stiamo ancora aspettando che a esprimersi siano le Camere.

Nel 2015, la Corte suprema canadese pronunciò parole mirabilmente chiare a proposito del suicidio assistito, collocando la questione della sua ammissibilità all’interno del più generale diritto alla vita: nonché dei principi di libertà e sicurezza, secondo criteri di giustizia sostanziale. Ne derivava l’incostituzionalità del divieto assoluto - assoluto, questo è il punto -, di suicidio assistito. In altre parole, la finalità del divieto non era preservare la vita “a ogni costo”, bensì assicurare che le persone vulnerabili non fossero indotte, da altri o dalla propria stessa disperazione, a darsi la morte in un momento di fragilità e di ridotta o mancata autonomia.

La pronuncia è fondamentale e costituisce il rovesciamento di tanti stereotipi divenuti senso comune che hanno stravolto il significato del suicidio assistito, quasi fosse una tentazione necrofila e non - come è - l’unico atto di autodeterminazione possibile in alcune circostanze.

La sentenza della Corte Costituzionale italiana arriva solo il 22 novembre 2019 ed è, senza dubbio, meno innovativa, non affermando un diritto a decidere come e quando morire, ma limitandosi a fissare i presupposti in presenza dei quali l’aiuto offerto al malato irreversibile non è perseguibile penalmente. Dispositivo essenziale è “l’auspicio”, espresso “con vigore”, che il Parlamento legiferi in materia. Il che, tuttora, non è avvenuto.

Prima e dopo il pronunciamento della Consulta, molte cose sono accadute. In Italia, la prima proposta di legge in materia venne presentata nel 1984 dal socialista Loris Fortuna (già promotore nel 1970, con il liberale Antonio Baslini, della legge sul divorzio). Dovettero passare due decenni prima che la questione diventasse di interesse pubblico.

Dapprima grazie a Piergiorgio Welby, il quale, affetto da distrofia muscolare degenerativa e tenuto in vita da un ventilatore polmonare, presentò ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma, chiedendo l’autorizzazione al distacco della macchina con sedazione palliativa. Il giudice rigettò la richiesta, affermando che fosse compito del Parlamento approvare una legge sul tema e farsi carico, così, “di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui Welby si era rivolto, si augurava che non finissero con il prevalere “il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Era il settembre 2006 e quel “silenzio” perdura, appena interrotto dall’approvazione alla Camera di un testo che non sembra destinato a superare l’esame del Senato.

Il 20 dicembre dello stesso anno Welby si spense, assistito dall’anestesista Mario Riccio, che procedette alla sedazione continua profonda e al distacco del respiratore e che per questo fu sottoposto a due indagini. Una da parte dell’Ordine dei medici di Cremona, che dispose l’archiviazione, e una da parte del Tribunale di Roma, che pronunciò il non luogo a procedere per il reato di omicidio del consenziente. Riccio non doveva essere punito in quanto aveva agito “nell’adempimento di un dovere”. Un’altra vicenda segnò poi la coscienza pubblica. Quella di Eluana Englaro. Il primo ricorso al Tribunale di Lecco è del 1999, ma solo nel 2007 le ragioni dei genitori trovarono accoglimento in una sentenza della Cassazione.

Questa riconobbe al giudice la possibilità di autorizzare la richiesta del tutore di chi versi in stato vegetativo permanente di interrompere nutrizione e idratazione artificiali. Due i requisiti richiesti: l’irreversibilità della condizione clinica e la corrispondenza della domanda alla volontà del paziente stesso, dedotta dai suoi convincimenti, dichiarazioni, personalità e stile di vita. Dopo di che furono numerosi i casi analoghi: Giovanni Nuvoli (2007), Walter Piludu (2016), Fabiano Antoniani (2017), Davide Trentini (2017), Fabio Ridolfi (2022) e “Mario” (Federico Carboni) (2022). Mentre quest’ultimo, dopo un tormentato iter otteneva, primo in Italia, l’accesso al suicidio assistito, Fabio Ridolfi doveva ricorrere alla sedazione continua profonda, così come l’ex presidente della Regione Emilia Romagna Antonio La Forgia (la cui sedazione, durata oltre tre giorni e mezzo, si è trasformata, secondo la moglie, in “una inutile tortura”).

Qui è opportuno precisare. La sedazione palliativa profonda continua è volta a ridurre il dolore non lenibile attraverso il progressivo annullamento della coscienza del paziente, fino al sopraggiungere della morte. Il suicidio assistito consiste nell’autosomministrazione del farmaco letale da parte del malato che, nel pieno delle sue capacità mentali, ne faccia richiesta.

Oggi, a seguito della “sentenza Cappato”, è consentito a precise e restrittive condizioni, sebbene successive pronunce ne abbiano estesa l’applicabilità. A partire dalla decisione della Corte di Assise di Massa (Sentenza Trentini, 2020), che ha affermato come il requisito del trattamento di sostegno vitale non sia limitato alla dipendenza da macchinari. Il suicidio assistito sarebbe dunque ammissibile anche nei casi di pazienti sottoposti “a qualsiasi trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici”. Restano esclusi coloro che, totalmente immobilizzati, non sono in grado di assumere il farmaco da sé.

Nell’eutanasia volontaria è un terzo a procurare la morte del paziente con il consenso di quest’ultimo: in Italia è illegale ai sensi dell’articolo 579 del codice penale; e la Corte Costituzionale (febbraio, 2022) ha dichiarato inammissibile il quesito referendario che ne proponeva la regolamentazione. Tutte queste vicende vedono protagonista l’Associazione Luca Coscioni, diretta da Filomena Gallo, Marco Cappato e Mina Welby. L’associazione ha due meriti storici che andrebbero riconosciuti anche da parte di chi non ne condivida le finalità: l’aver sottratto alla clandestinità un mondo di sofferenze e di degradazione fisica e psichica; l’aver proiettato sulla sfera pubblica e istituzionale una domanda di giustizia tanto intensa quanto, in genere, sottaciuta. Tutti i drammi individuali e le discussioni pubbliche, le proposte di legge e i conflitti etici in materia, ruotano intorno ad una domanda cruciale: di chi è la mia vita? Ovvero la questione della disponibilità della vita umana, come bene giuridico conteso tra Stato e individuo. Si contrappongono due posizioni antitetiche. Coloro che affermano la sacralità e l’assoluta indisponibilità della vita, ritenuta, quando pure non un dono di Dio, comunque funzionale, oltre che all’interesse del singolo, all’interesse della collettività: l’uomo rappresenterebbe una “fonte di ricchezza e di forza come elemento riproduttore della specie, come lavoratore, come soldato” (Corte di Cassazione, 18 novembre 1954).

La vita non apparterrebbe alla persona ma a un’entità superiore: Dio e/o lo Stato, secondo una concezione paternalista collettivista e autoritaria, che riduce l’individuo a una funzione della società, assolutizzando i suoi doveri verso la famiglia e lo stesso Stato. All’opposto, quanti considerano la vita un bene disponibile, valorizzando il principio di autodeterminazione, che postula la libertà della persona di agire avendo come solo limite quello di non ledere le libertà altrui. Già l’ispirazione personalistica della carta costituzionale e la giurisprudenza più innovativa su essa formatasi, avevano mitigato l’assolutezza del principio di indisponibilità della vita. Nel frattempo, le posizioni ieri aspramente contrapposte si sono lentamente avvicinate, pur rimanendo tutt’altro che risolto proprio il nodo dell’indisponibilità.

In proposito, va ricordata la replica di Vittorio Possenti, filosofo del diritto, cattolico assai rigoroso, all’affermazione ricorrente nella teologia morale e nella pastorale della Chiesa secondo cui “la vita è un dono e noi non ne possiamo disporre”. Possenti ha sottolineato la singolarissima anomalia di un dono che resta proprietà del donatore: se pure la vita è un dono, sono io, il ricevente, che ne sono il titolare, e, dunque, a poterne disporre come meglio credo. In piena responsabilità e libertà. Si tratta di parole non solo di elementare limpidezza, ma anche di notevole sapienza, in quanto esprimono per un verso la pienezza della libertà di scelta e, per l’altro, il senso di responsabilità - anche verso gli altri - che essa comporta.