sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Oliviero Mazza*

Il Riformista, 29 giugno 2024

Il dibattito sulla giustizia riparativa assume sempre più spesso caratteri surreali. I ferventi sostenitori descrivono un sistema idealizzato di risoluzione alternativa ed etica della controversia penale che non trova alcun riscontro nella disciplina normativa e che ne ignora, volutamente, l’ontologica incompatibilità con la presunzione d’innocenza e con la funzione cognitiva del processo penale. Il punto di maggior criticità è rappresentato proprio dalla scelta di incistare la giustizia riparativa nel processo penale in modo tale da istituzionalizzare, con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di spesa pubblica (4 milioni e mezzo di euro all’anno), un percorso che, se fosse rimasto in ambito privato e volontario, avrebbe avuto pochissime possibilità di essere finanziato.

La giustizia riparativa presuppone una già intervenuta cristallizzazione dei ruoli, colpevole e vittima. Che per la logica del processo penale non solo non possono essere affermati fino all’accertamento definitivo di responsabilità, ma sono addirittura ribaltati dalla previsione costituzionale per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato. Del resto, risponde a una logica elementare che la riparazione presuppone l’accertamento della rottura dei rapporti sociali o interindividuali ad opera dell’imputato. Al di là della descrizione quasi esoterica della “conca riparativa”, al mediatore è rimessa dal giudice o dal pm, con decisione d’ufficio ben diversa dalla libera scelta delle parti, la risoluzione alternativa della questione penale.

La giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale ed è intrisa di vittimocentrismo e di comunitarismo. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa.

Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono stragiudiziale e ad accogliere nuovamente l’imputato che abbia compiuto tangibili atti di contrizione. Come se ciò non bastasse, la giustizia riparativa delinea un procedimento incidentale senza garanzie, in cui il difensore non è ammesso per scelta ideologica, mentre sono graditi ospiti associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato, delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali (art. 45 lett. c d.lgs. n. 150 del 2022) ovvero chiunque altro vi abbia interesse (art. 45 lett d d.lgs. n. 150 del 2022). Come si giustifica che l’accusato sia lasciato solo dinanzi a questo “tribunale del popolo” composto addirittura dalla polizia?

Ma soprattutto, perché chiunque vi abbia interesse può partecipare, ma non il difensore che sarebbe il primo ad avere un interesse per di più qualificato? C’è una sola possibile chiave di lettura ed è il malinteso ruolo del difensore quale complice processuale dell’imputato. Alla garanzia della giurisdizione si sostituisce la figura mitologica del mediatore, psicoanalista o parroco più che giurista, attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto, citando la felice definizione di Cavallone. Sarebbe opportuno interrogarsi sulla scelta di delegare la risoluzione dei conflitti interpersonali integranti il reato non più ai giudici, ma agli operatori sociali. È questo il nuovo modello di giustizia penale al quale aspiriamo?

Senza potersi soffermare su altre aporie, dalla presunta impermeabilità dei procedimenti fino ai riflessi nel processo penale di un esito negativo della mediazione, la più rilevante questione riguarda la confusione fra diritto e morale, plasticamente delineata dalla vittima aspecifica, una specie di “inginocchiatoio” messo a disposizione dell’imputato nel caso in cui la vittima del reato non ci sia o non voglia partecipare al percorso riparativo. La laicità del diritto penale è un valore liberale che va difeso di fronte alla deriva che trasfigura il reato da categoria giuridica a evento psicosociologico e che confonde la rieducazione con la riparazione.

*Professore di Procedura penale