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di Susanna Rugghia

L’Espresso, 14 gennaio 2024

Storie di donne e uomini testimoni di violenze e soprusi. È “Coraggio senza confini” di Ariel Dorfman, spettacolo interpretato da detenuti-attori nel penitenziario di Rebibbia. “Questo spettacolo ci ha dato modo, in una struttura totalizzante come il carcere, di parlare di diritti umani, giustizia e libertà perdute”. La voce di Fabio, detenuto della casa circondariale di Rebibbia, è ferma nonostante la commozione. È tra i nove attori che hanno preso parte allo spettacolo del 12 dicembre scorso messo in scena nel Teatro “Raffaele Cinotti” di Rebibbia, a Roma, e organizzato dalla Fondazione Kennedy. “È un testo affascinante e delicato, ci ha permesso di commuoverci e di elaborare diverse sensazioni. Parlare di privazione della libertà e di diritti in una struttura carceraria vuol dire tanto. Ho un sogno: che arrivi il giorno in cui una libertà giusta risplenda perché alto è il suo valore effettivo, umano e sociale”.

L’opera teatrale del regista Ariel Dorfman, argentino naturalizzato statunitense, tradotta da Alessandra Serra, è stata realizzata interpretando il libro “Speak Truth to Power” scritto da Kerry Kennedy, figlia del senatore Bob Kennedy e fondatrice dell’Associazione Robert F. Kennedy Human Rights, nel quale l’autrice narra le storie di uomini e donne testimoni di violenze e sopraffazioni che hanno trovato il coraggio di reagire e di raccontarle. L’evento è stato promosso in occasione del 75esimo anniversario della proclamazione, da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

“Il progetto nasce dal testo teatrale di Kerry Kennedy “Speak Thruth to Power” che noi abbiamo tradotto con “Coraggio senza confini” per allargare un po’ la prospettiva”, spiega Valentina Pagliai, che dal 2004 collabora con il Robert F. Kennedy Human Rights Italia coordinando i progetti educativi, di legacy e di formazione per docenti e studenti. “Sono interviste ad attiviste e attivisti per i diritti umani, alcuni sono Nobel per la pace, altri sono un pochino più sconosciuti al grande pubblico. Il fatto che molti di loro abbiano fatto esperienze di carcere e di tortura li avvicina idealmente alla vita e alla sensibilità delle persone detenute”.

L’intento dello spettacolo è in effetti quello di mettere in prospettiva il peso del luogo e del contesto nel quale le persone nascono: “A seconda del posto in cui sei nato, e dalle forme di potere costituito, si può essere considerati eroi per i diritti umani o delinquenti da perseguire”. Un doppio punto di vista che permette a chi recita di portare molto della propria esperienza, delle proprie sofferenze e dell’ambiguità irrisolta tra giustizia e legalità. “È stato importante mostrare al pubblico la voce di chi la sofferenza se la porta addosso”, continua Fabio. Un’ambiguità che nello spettacolo è incarnata proprio dalla figura dell’essere umano, che è rappresentato come una incarnazione mitica, un Profeta dei Molteplici Mali, che con le sue parole e con la sua presenza ricorda costantemente contro cosa lottano i difensori. “Sono le storie di 51 persone che hanno dedicato le loro vite agli altri, a una causa, pur non possedendo poteri speciali”, spiega Federico Moro, Segretario Generale Associazione Robert Kennedy Human Rights Italia. All’inizio della commedia l’essere umano viene subito individuato come un personaggio pericoloso, nel senso che è in grado di far del male anche fisicamente, un’entità che è sempre in agguato all’interno dello Stato e della Società ed è pronta a passare all’azione, quel genere di energia di cui sono fatte l’apatia e l’indifferenza, cioè i peggiori nemici nella lotta per un mondo migliore. Ma sono poi proprio gli attivisti e le attiviste dei diritti umani a sublimare il significato dell’esistenza.

“Quando ho letto il copione mi sono accorto che una parte del testo che avrei interpretato appartiene a Helen Prejean”, spiega ancora Fabio: “Possiedo una dedica sul suo ultimo libro mandatomi da mia sorella che vive a San Francisco”. Prejean è una delle principali attiviste americane contro la pena di morte, è stata presidente della Coalizione nazionale per l’abolizione della pena di morte e autrice del libro “Dead Men Walking” (1983) dove racconta la sua esperienza di consulente spirituale di due detenuti nel braccio della morte. “È una delle poche cose care che tengo con me in carcere. E il fato ha voluto che io interpreti un suo testo. Questo mi ha reso ancora più combattivo nell’affrontare questa tematica, che spero venga divulgata nelle scuole, nelle università e dalle nostre istituzioni”.

E nell’opera c’è molto della vita del regista Ariel Dorfman: di origine ebraica, la sua famiglia fu costretta a scappare dall’Europa, poi in Argentina e in America. Trovò infine riparo in Cile, dove poi è arrivata la dittatura di Pinochet. Non a caso ha trasposto in questo reading teatrale la sua esperienza diretta della persecuzione e dell’oppressione. “Abbiamo portato lo spettacolo nel carcere di Bucarest nel 2009. Fu un’esperienza molto forte, c’erano detenuti entrati durante il regime di Ceaușescu e là fuori c’era un mondo completamente diverso che loro non conoscevano”, spiega Valentina Pagliai: “Lo abbiamo portato anche nel carcere femminile di San Vittore nel 2014, dove ci sono tante storie, molto dure e tristi. Ma le vicende di queste attiviste donne che sono sfuggite alla mutilazione genitale femminile, raccontando anche quei Paesi che le hanno accolte non sempre benevolmente, hanno veicolato messaggi diventati importantissimi, se pensiamo ai flussi migratori in Italia. Infine, lo spettacolo è stato portato nel 2016 nel carcere di Sollicciano a Firenze. Anche questo è un penitenziario molto difficile perché le persone vanno e vengono. Quindi, anche i progetti di riabilitazione culturale spesso non riescono ad essere attuati. Nel 2016 fu ripreso da un docente di teatro Yale che voleva fare un paragone fra gli attivisti dei diritti umani e i personaggi dell’inferno dantesco”, sempre per parlare del relativismo della morale quando si raccontano le storie di chi viene perseguitato e privato della libertà.

“Lo facciamo per rispondere all’articolo 27 della Costituzione Italiana che dice che il nostro carcere ha valore riabilitativo e non punitivo. È un concetto su cui noi basiamo tantissime attività partecipative anche nelle scuole. Bisogna capire perché le persone sbagliano e lavorare su questa prospettiva è fondamentale. Per l’alto valore riabilitativo della pena detentiva, nel 2019, abbiamo scelto di rilasciare il nostro premio alla dottoressa Rossella Santoro”, direttrice del carcere di Rebibbia che il 12 dicembre, a margine dello spettacolo, ha sottolineato l’importanza di fornire alle persone detenute lo spazio per realizzare le proprie inclinazioni, passioni e capacità.

“Il fatto che nove detenuti della Casa circondariale di Rebibbia abbiano interpretato questa storia è per noi un grande onore e una grande opportunità”, conclude Federico Moro: “Il carcere deve essere un luogo dove potere trovare una strada nuova. Ci auguriamo che questo spettacolo possa dare agli attori che con tanta passione lo hanno messo in scena una prospettiva in più e, perché no, la possibilità di intravedere nel teatro una opportunità di carriera quando saranno fuori da qui”.