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di Diletta Bellotti

L’Espresso, 22 ottobre 2023

La definizione è ormai inflazionata e, spesso, priva di senso. Per incidere davvero nelle lotte di liberazione contro le classi di oppressori sono richiesti ascolto, rinuncia ai privilegi e, soprattutto, la disponibilità ad agire. In altre parole, complicità e non mera adesione a una causa. Non c’è nulla di naturale o inevitabile nel denaro, nel debito, nei diritti di proprietà o nei mercati; sono sistemi simbolici che traggono la loro efficacia dalla convinzione collettiva che debbano esistere per forza. Questo non significa necessariamente invocare il primitivismo o essere contro la civilizzazione, ma significa aspirare a un sistema di pensiero che non associ ciò che è storicamente radicato con qualcosa di necessariamente futuribile.

Il ruolo degli attivisti è quello di ispirare la speranza radicale esponendo la mutevolezza delle relazioni sociali, come per esempio la possibilità, per ognuno, di vivere meglio, oltre sistemi che minacciano la sopravvivenza sulla Terra. È sotto gli occhi di tutti quanto “attivismo” sia un termine inflazionato: è quasi un significante flottante, cioè vuoto, un contenuto linguistico che non ha più un preciso contesto di riferimento. Nel dibattito pubblico italiano si ha molta esperienza di significati flottanti: si pensi a termini come “sviluppo” o “resilienza”.

Nonostante l’avanzare di un significato di fare attivismo sempre più vuoto, non dobbiamo perdere la creatività, anche semplicemente trovando sinonimi ancora intatti. In quanto attivisti, in quanto cittadini, in quanto esseri senzienti, bisogna trovare nuovi modi per armare il proprio privilegio, cioè per utilizzarlo in senso offensivo verso i sistemi di oppressione, iniziando con il comprendere e rinnegare la propria ricompensa nell’essere parte della classe dell’oppressore. Come beneficio, per esempio, dei legami coloniali dei Paesi europei anche se non sono stato io stesso a creare questi sistemi? Che vantaggi traggo dal sistema patriarcale anche se, apparentemente, non faccio nulla per rafforzarlo? Come beneficio della propaganda anti-migrante anche se non ho nulla a che spartire con coloro che la portano avanti?

Non tutti, per fortuna, ricoprono il ruolo di oppressore in ogni aspetto della propria identità: ciò che di noi è più marginale e bistrattato forse è anche molto nascosto. Può darsi che non sia ancora stato dichiarato perché abbiamo paura che poi anche noi ne rimarremmo schiacciati. C’è un sistema preciso che beneficia dall’isolare e reprimere gli attivisti e i militanti, questo è ancora vero in Occidente ed è molto vero nel Sud del mondo.

Da un decennio, invece, ci sta un sistema economico che usufruisce di un certo modo di fare attivismo e che rientra perfettamente nel cosiddetto complesso industriale. In inglese “industrial complex” è un concetto socioeconomico per cui le aziende si intrecciano alle istituzioni sociali e politiche, creando o sostenendo un’economia di profitto da queste. Un esempio classico è il “military-industrial complex” ovvero il modo in cui l’industria bellica trae profitto dal perpetuarsi delle guerre e ha un ruolo, sociale e politico, nell’ostacolare la pace. Similmente, il complesso-industriale dell’attivista rischia di mercificare termini e modalità di lotta così da impedire ogni reale e profonda possibilità di cambiamento.

Oggi, quindi, allearsi con una causa può non essere abbastanza. Che siano i lavoratori in sciopero o chi, oltre i nostri confini, vive in guerra, ci richiede qualcosa di più di essere alleati e attivi: ci chiede complicità. Si parte dall’ascolto, certo, si procede rinunciando a dei privilegi, ma poi si passa all’azione, chiedendosi intanto: in che modo io posso contribuire ai processi di liberazione?