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di Giansandro Merli

Il Manifesto, 18 settembre 2024

Detenzione amministrativa I giudici etnei smentiscono il governo usando le informazioni del ministero degli Esteri. La decisione firmata dal presidente della sezione specializzata in immigrazione. Sempre più a rischio i centri in Albania, nonostante Piantedosi dica: “Non temo ricorsi”. “Insanabile contrasto tra il decreto del ministero Affari esteri e cooperazione internazionale 7/5/2024, letto in uno alla Scheda paese, e la norma di legge primaria”. Così recita il provvedimento con cui ieri il tribunale di Catania ha liberato un richiedente asilo tunisino dal centro di Pozzallo. La formula giuridica può risultare oscura, ma indica una cosa semplice: la Tunisia non è un paese sicuro. Escono, con analoghe motivazioni, altri sei connazionali e due egiziani.

Il trattenimento durante le procedure di frontiera, infatti, può essere applicato in due casi: uno residuale, quando il migrante elude i controlli al confine, e uno molto più diffuso, quando il paese di origine è incluso nel decreto ministeriale che elenca quelli “sicuri”. A maggio di quest’anno il governo Meloni lo ha esteso a 22 Stati. Tra loro compaiono Egitto e Tunisia. Quest’ultima è molto rilevante sia per il numero di sbarchi nel 2024, quasi 6.200 su un totale di 44.767, che per ragioni politiche: il regime di Kais Saied è al centro della strategia italo-europea di contenimento delle partenze. A giugno dell’anno scorso la premier italiana Giorgia Meloni, accompagnata dall’omologo olandese Mark Rutte e dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ha firmato con Tunisi un memorandum d’intesa da 127 milioni di euro per il “contrasto della migrazione irregolare”. È notizia di questi giorni che le autorità tunisine - insieme a quelle di Algeria, Libia e Costa d’Avorio - parteciperanno al G7 dei ministri dell’Interno che si svolgerà dal 2 al 4 ottobre in provincia di Avellino.

Già sabato scorso i giudici etnei avevano deciso di non convalidare il trattenimento di un ragazzo egiziano argomentando che per il paese governato dall’ex generale Al-Sisi non vale la “presunzione di sicurezza”, perché mancano i requisiti richiesti dalla legge: assenza di torture e trattamenti inumani e degradanti; rispetto di diritti e libertà fondamentali; esistenza di un sistema di rimedi, dunque di una magistratura indipendente davanti cui far valere le proprie istanze. In quel caso il tribunale aveva sostenuto il suo ragionamento attraverso un’ampia rassegna di fonti indipendenti, dai report di Amnesty International a quelli del dipartimento di Stato Usa. Per la Tunisia, invece, ha semplicemente accostato il dettato della legge alla “scheda paese” usata dal ministero degli Esteri per giustificare l’inserimento nel decreto di quelli “sicuri”. Le contraddizioni tra quanto prevede la norma in senso generale e la situazione concreta dello Stato nordafricano sono lampanti.

Infatti il tribunale rileva che “per valutazioni richiamate dallo stesso ministero” la Tunisia: non rispetta il divieto di arresti e detenzioni arbitrarie; pratica arresti con prove inesistenti; applica misure cautelari senza il vaglio giudiziario; chiude tv contrarie al governo; reprime la liberà di associazione; discrimina i diritti lgbt; tollera la violenza sulle donne; consente la tortura in stazioni di polizia e carceri; non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo di altri paesi. Il provvedimento è firmato dal presidente della sezione specializzata in immigrazione, ciò lascia supporre che esprima un orientamento condiviso o comunque maggioritario tra le toghe catanesi. La decisione è basata su argomenti molto forti che verosimilmente varranno per tutti i richiedenti originari della Tunisia (discorso analogo per l’Egitto).

Rispetto ai casi di ieri, poi, i giudici sollevano anche obiezioni procedurali sulla possibilità di applicare l’iter accelerato di frontiera, su cui si basano le richieste di trattenimento firmate dal questore di Ragusa. I nove richiedenti asilo erano tutti sbarcati a Lampedusa, che è in provincia di Agrigento. Dunque è quella la frontiera, non un comune situato in un altro distretto siciliano e la cui competenza ricade sotto un diverso tribunale (Catania invece di Palermo).

Resta da capire perché il Viminale abbia dirottato a Pozzallo quei migranti, avendo a disposizione 70 posti nell’analoga struttura di Porto Empedocle, adiacente alla città dei Templi. Si possono avanzare due ipotesi. La prima è che il tribunale di Palermo, sebbene con motivazioni più circostanziate ai casi singoli che non toccano la questione dei paesi sicuri, continua a non convalidare i trattenimenti: sabato scorso ne ha bocciati sei su sei. La seconda è che il governo, alla luce del processo Salvini, cerchi nuovi argomenti per attaccare la magistratura, accusandola di sabotare le politiche migratorie messe in campo.

Tema che, alla luce di quanto sta accadendo nelle corti siciliane, si riproporrà con ben altra eco per i centri in Albania, su cui è competente il tribunale di Roma. Martedì Piantedosi ha dichiarato di non temere ricorsi perché la normativa alla base dei trattenimenti oltre Adriatico, la stessa di Pozzallo e Porto Empedocle, “anticipa una regolamentazione europea che entrerà in vigore nel 2026”. A quella data, però, mancano ancora due anni.