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di Luigi Manconi

La Stampa, 28 settembre 2023

Il regime di Al-Sisi non ha mai collaborato, ben sei esecutivi di seguito non l’hanno pressato. Se questo crimine non finisce nell’oblio è merito della famiglia e del procuratore Colaiocco. Infine si apre uno spiraglio, sottile ma determinante, nella tormentatissima vicenda dell’accertamento della verità sull’assassinio di Giulio Regeni. Grazie a una sentenza della Corte Costituzionale ora è possibile che la magistratura italiana processi gli imputati per il sequestro, la tortura e l’omicidio del nostro connazionale.

La Consulta ha dichiarato infatti “l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura”. E ciò perché i quattro imputati, tutti appartenenti alla National security agency (Nsa), non hanno ricevuto la citazione e la convocazione a processo - è quanto prevede il nostro codice di procedura penale - a causa della mancata collaborazione dello Stato egiziano, pur essendo a conoscenza del procedimento a loro carico.

Si dovranno leggere le motivazioni della sentenza, ma si intuisce che essa si debba alla eccezionale gravità dei capi di accusa, ovvero quegli “atti di tortura” che hanno martoriato il corpo del giovane ricercatore e ne hanno determinato la morte. Ora si può andare a processo secondo le procedure del nostro sistema di giustizia. È un risultato importantissimo dovuto in particolare a due soggetti: la famiglia di Regeni e il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco.

La prima, con intelligenza e tenacia e con una straordinaria misura di equilibrio, si batte fin da quei giorni d’inverno del 2016 per tenere viva l’attenzione su quella tragedia, per interpellare tutti gli attori in qualche modo coinvolti e per accedere a tutte le sedi istituzionali dove sia possibile sollecitare una iniziativa politica e mobilitare energie e risorse pubbliche. Troppo spesso in piena solitudine. Una grande solidarietà popolare, ma l’assenza pressoché totale delle istituzioni di governo.

L’ultimo atto di vera pressione nei confronti delle autorità egiziane consistette nel richiamo in Italia del nostro ambasciatore al Cairo l’8 aprile del 2016, ma anche quella si rivelò una procedura solo formale e il debole segno di una controversia sostanzialmente innocua. Così che, alla vigilia del Ferragosto dell’anno successivo, il provvedimento fu revocato e si ripristinò l’ordinaria normalità diplomatica tra Italia ed Egitto.

Dal giorno del rapimento di Regeni a oggi si sono succeduti sei Governi. E al di là delle petizioni di principio hanno prevalso in genere le dichiarazioni di “amicizia” verso l’Egitto; e una sequenza turbinosa di incontri di presidenti del Consiglio e ministri con il despota egiziano, tale da far immaginare una inquietante promiscuità. Un esempio: nel corso del solo agosto del 2018, furono ben quattro gli incontri tra i più importanti rappresentanti del Governo italiano e Abdel Fattah al-Sisi.

La spiegazione che in genere si dà è tutt’altro che immotivata e tuttavia troppo semplice per risultare esauriente. Che il ruolo dell’Eni nella politica estera e italiana sia particolarmente rilevante è indubbio: ma nemmeno questo è sufficiente a spiegare la pusillanimità dei nostri esecutivi. Il perseguimento degli interessi economico-finanziari dell’Italia in quella regione del mondo non è sufficiente a dare conto di tanta subalternità.

La politica e la diplomazia italiane hanno rivelato un disastroso complesso di inferiorità nei confronti di un regime autocratico e una scarsissima considerazione del proprio ruolo di nazione sovrana e indipendente. In sette anni e mezzo sono stato testimone diretto dell’indisponibilità delle autorità italiane a incidere sulle relazioni bilaterali con l’Egitto, a esercitare un efficace pressione, a coinvolgere l’Europa in una interlocuzione decisa e incalzante con quel regime, a far sentire il peso della propria funzione nell’area del Mediterraneo.

È come se l’Italia avesse archiviato il “dossier Regeni” già il 3 febbraio del 2016, giorno del ritrovamento del suo cadavere, e avesse atteso che scivolasse nell’oblio e nell’oscurità della smemoratezza collettiva. Se così non è stato si deve, come si è detto, alla saggezza e alla pervicacia dei genitori di Giulio e all’attività del procuratore Colaiocco, e della collaborazione di polizia e carabinieri, in una indagine che ha portato a risultati assai significativi, nonostante riguardasse reati commessi in un Paese straniero. E nonostante il vero e proprio ostruzionismo messo in atto dal regime egiziano.

Ora il processo può andare avanti secondo le regole del nostro Stato di diritto, che conferma così la sua superiorità rispetto ai regimi dittatoriali, perché come ha scritto il Giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi “non esiste processo più ingiusto di quello che non si può instaurare per volontà di un’autorità di governo”. E questo rappresenta un motivo di sollievo, anche perché la decisione della Consulta - va ribadito - parte dalla considerazione dell’assoluta irreparabilità dei reati contestati. La pratica della tortura costituisce il più efferato oltraggio alla dignità umana, vi si ritrova “tutto il male del mondo” (come disse Paola Deffendi Regeni) ed esige la massima intransigenza. Dal momento che il ricorso a essa non è un retaggio dei secoli bui né un prodotto esotico: accade che anche le cronache italiane ne possano riportare gli orrori.