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di Annalisa Cuzzocrea

La Stampa, 13 giugno 2022

Alla fine vien da chiedersi cosa resta del diritto di voto, in un Paese in cui oltre la metà dei cittadini sceglie di non esercitarlo. “Non è vero che va bene così”, aveva detto già nel 2018 il capo dello Stato Sergio Mattarella, riflettendo sull’aumento dell’astensionismo. Non è vero che se accade in altre democrazie mature, è normale succeda anche da noi. Perché la partecipazione al voto dà la misura dello stato di salute della Repubblica: della sua capacità di proporre soluzioni, di includere chi ne fa parte in un processo di cambiamento e miglioramento delle proprie condizioni. Da quanto tempo troppe persone nel nostro Paese hanno smesso di credere che sia così?

Ci sono tre elementi da analizzare nel voto di ieri, che segna un minimo storico di partecipazione per i referendum e uno dei punti più bassi per le amministrative: elezioni in cui si vota per la guida delle proprie città, qualcosa di vicino, di tangibile, che tanto più dovrebbe richiamare alle urne e tanto più invece ormai pare allontanare. In un clima di sfiducia e disincanto che dovrebbe far risuonare un campanello di allarme non solo dentro ai partiti e nelle sedi parlamentari, ma in tutte le organizzazioni civili e sociali del Paese. Fin dentro alle nostre case, nel dialogo con i nostri figli cui dovremmo trasmettere il senso di un diritto conquistato in secoli di storia e ora trattato alla stregua di un esercizio desueto e inutile.

Il primo fattore riguarda i referendum abrogativi: dal 1999, il quorum è stato raggiunto solo nel 2011 su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento. In quel periodo, il movimento per i beni comuni era riuscito a coinvolgere milioni di cittadini su una promessa, la sottrazione di un bene come l’acqua alla privatizzazione, che attirò una valanga di sì. Era l’epoca in cui Silvio Berlusconi si sottraeva ai tribunali invocando il legittimo impedimento: gli italiani votarono per impedirglielo. Il tempo in cui uno dei suoi ministri, Claudio Scajola, immaginava un ritorno all’energia nucleare: il quesito che lo vietava, incassò oltre il 94 per cento di sì. Nulla di paragonabile è più accaduto. Sulla giustizia, con quesiti simili a quelli di oggi, i radicali avevano già provato nel 2000 e anche allora erano rimasti senza quorum. Ed è vero, come lamentano, che se ci fossero stati i quesiti su cannabis ed eutanasia staremmo forse raccontando un’altra storia. Le sofferenze di Mario, di Fabio, l’ingiustizia di una legge sul suicidio assistito bloccata al Senato da veti e non detti avrebbero smosso di certo qualcosa. Ma non è detto che avrebbero indotto gli italiani a cancellare la legge Severino o a decidere come devono essere eletti i membri del Csm o che tipo di carriera dev’essere concessa ai magistrati.

C’è poi il secondo elemento di sofferenza: Matteo Salvini. Il leader della Lega ha raccolto le firme unendosi in un inedito connubio con Radicali, Italia Viva e Azione. E’ partito lancia in resta contro la magistratura con Forza Italia un po’ al rimorchio, ma a metà strada si è reso conto che lo avrebbero seguito in pochi. Così ha fischiettato per poi, a pochi giorni dal voto, prendersela con giornali e tv. Anche questa sconfitta, però, è frutto dei pasticci degli ultimi mesi: la tappa al confine con l’Ucraina e le prese in giro di un sindaco polacco con la maglietta di Vladimir Putin. Il mancato viaggio a Mosca che l’ambasciata russa aveva addirittura pagato in rubli. Tutti regolarmente restituiti, fa sapere via Bellerio, come se bastasse a levare opacità a una storia che ne è permeata.

Il terzo elemento, chiama in causa la nostra coscienza civile. Com’è possibile che nel 2022, a 30 anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, siamo capaci di accettare che un candidato sindaco a Palermo raccolga voti con l’aiuto esplicito di due persone condannate per reati connessi alla mafia come Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro? Com’è possibile che ancora si scambi “il diritto con il favore”, come ha scritto ieri su questo giornale Gian Carlo Caselli a proposito dei due candidati di centrodestra indagati per scambio di voti politico-mafioso? E come possiamo essere certi che su quei 90 presidenti di seggio che non si sono presentati, proprio a Palermo, non pesi l’ombra di un voto così pesantemente inquinato dalle rinnovate ambizioni di Cosa nostra? Secondo il Comune, hanno disertato per via della partita. Insieme a 84 scrutatori avrebbero dimenticato il loro dovere per andare a tifare rosanero sperando nel passaggio in serie B. Sarebbe, in entrambi i casi, una catastrofe civile. Che è davanti ai nostri occhi, serve solo il coraggio di affrontarla.