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di Flavia Perina

La Stampa, 3 febbraio 2024

Le foto di Aylan sulla spiaggia o il volto tumefatto di Cucchi hanno svegliato le coscienze. Ma lo spazio dei diritti conquistato dai tempi di Tortora non è così largo come immaginiamo. Ci sono fotografie che hanno il potere di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e talvolta di cambiarla. Quella di Ilaria Salis al guinzaglio in un tribunale ungherese appartiene a questo tipo di album: sapevamo della scarsa considerazione per i diritti del governo di Budapest, ma è servita un’immagine per rendere concreta quella consapevolezza, muovere ambasciatori e ministri, cercare soluzioni.

La biografia politica di Salis sarà pure opinabile, ma non è discutibile l’abuso di potere che la sua foto racconta in ogni dettaglio: i ceppi di cuoio ai piedi, le catene, i due colossi in mimetica e passamontagna che la sospingono in aula. Così come quarant’anni fa non fu discutibile il sopruso dei pubblici poteri su Enzo Tortora tradotto in manette dalla caserma al carcere in favor di telecamera, con i giornalisti appositamente convocati, in modo che tutti potessero assistere all’umiliazione e alla caduta di uno dei personaggi più famosi d’Italia. Anche in quel caso le immagini fecero la storia. Il tiepido garantismo italiano si accese, l’espressione “manette spettacolo” entrò nelle conversazioni con gli slogan radicali sulla Giustizia Giusta, alle Europee di un anno dopo Marco Pannella prese oltre un milione di voti.

È una foto che conta, una foto che ha modificato nel profondo la percezione della parola “femminicidio”, anche l’immagine sorridente di Giulia Cecchettin qualche mese prima del delitto. Nessuno, neppure i più accaniti nemici delle donne, ha potuto catalogare quella faccia sorridente, da bambina, come il volto di una “che se l’è cercata” e anche per questo la sua tragica fine è diventata un simbolo che ha scosso le coscienze. Si sono riempite le piazze. Sono aumentate le denunce. È raddoppiata l’attenzione delle forze dell’ordine. Ieri, in provincia di Latina, nel tema in classe sulla vicenda di Giulia, una sedicenne ha raccontato lo spavento per i comportamenti di un ex-fidanzatino ossessionato e minaccioso: gli insegnanti hanno allarmato la famiglia, la famiglia è andata dai carabinieri, in pochi giorni è scattata la denuncia con tanto di arresti domiciliari per lo stalker.

Dicono i grandi fotografi americani che le foto iconiche, quelle che “non hanno bisogno di didascalia” e cambiano le cose, rispondono a quattro caratteristiche: tutti le hanno viste, suscitano emozioni forti, sono replicate all’infinito dai media, continuano a essere riproposte nel tempo. I riferimenti di questo tipo di analisi sono sempre le foto di valore planetario ai tempi del Vietnam, l’Esecuzione di Saigon o Napalm Accidentale, lo scatto della bambina che fugge nuda dal villaggio incendiato dal fuoco americano. Fecero il giro del mondo e pochi mesi dopo gli Usa sospesero i bombardamenti e chiesero l’apertura di colloqui di pace: molte analisi concordano sul fatto che quelle testimonianze di brutalità e orrore resero impopolare il conflitto per larghissima parte degli elettori statunitensi.

Oggi forse non andrebbe allo stesso modo. Chi teme i contraccolpi di quel tipo di scatti ha imparato a depotenziarli nel solo modo possibile: negandone l’autenticità. Fu a lungo negata la veridicità del pestaggio di Stefano Cucchi: gli occhi neri, i lividi, le fratture, furono attribuiti anche da autorevoli parlamentari “alle percosse tipiche dell’ambiente della droga”, e molti ci credettero. Fu oggetto di un’operazione di delegittimazione su larga scala la foto-choc del piccolo Aylan Kurdi a faccia in giù sul bagnasciuga di Bodrum, Turchia, dopo il naufragio di una barca di disperati in fuga dall’Isis: “è stato messo in posa, è impossibile che non abbia perso le scarpe in mare, è troppo pulito per essere un profugo”.

E tuttavia finora il potere delle immagini ha prevalso. La foto di Cucchi ha reso inevitabile un’indagine più accurata di quelle riservate di solito ai morti in carcere e le responsabilità sono state accertate, anche se il percorso è stato complicato ed è servita tutta l’energia di avvocati e familiari per arrivare fino in fondo. La vicenda di Aylan e l’enorme emozione suscitata dalla sua fine atroce cambiò il tenore e i toni del confronto politico internazionale sulla questione dei rifugiati: persino la destra inglese di David Cameron fu indotta ad ammorbidire la sua linea mentre la Germania di Angela Merkel, senza troppe contestazioni, riuscì ad aprire le porte a un milione di profughi siriani.

L’album dei diritti negati, ammanettati, assassinati per ignavia o spietatezza, può aiutare le democrazie a capire. E dove di democrazia ce n’è poca o niente del tutto, quella photogallery diventa una bandiera di piazza e risuona più forte degli slogan. Valgono quanto bandiere le fotografie degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas: tutti, guardandole, possiamo capire la disumanità, il dolore, la paura. Sono bandiere le fotografie di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia religiosa di Teheran per un velo troppo allentato: le giovani iraniane le hanno esibite per mesi nell’ultima “rivolta dei capelli”, facendone pure versioni pop, colorate come poster. Chiunque, vedendole nei tg ha potuto intendere il senso di quella protesta anche senza parole: non si può essere pestate a morte per un fazzoletto indossato nel modo sbagliato.

La scossa prodotta dall’immagine di Salis in tribunale ovviamente non ha questa portata né questa drammaticità. Lei è viva e vegeta, può sorridere ai suoi genitori, ha concrete speranze di uscirne senza danni irreparabili. E tuttavia c’è voluta una fotografia per ricordarci che lo spazio dei diritti che in Italia abbiamo conquistato dai tempi di Tortora, e in Europa diamo per scontati, non è così largo come immaginiamo. Ci sono frontiere che lo delimitano. E dietro quelle frontiere - forse non solo in Ungheria, forse anche altrove - un imputato in attesa di giudizio è solo un corpo nella disponibilità del potere e delle sue esibizioni securitarie: si può decidere di trasportarlo al guinzaglio senza trovarci niente di indecente.