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di Sabrina Efionay

La Stampa, 1 luglio 2022

Più consapevolezza significa più apertura, più diffusione di una necessità significa maggiore consenso. È fondamentale spiegare e comprendere che si parla di persone che fanno parte integrante del tessuto sociale italiano, quando si parla di italiani senza cittadinanza. Forse è la prima, se non una delle prime volte, che una questione così tanto divisa per gli italiani stessi ha trovato una via di mezzo che mette d’accordo quasi tutti: lo Ius Scholae. Solo che in gioco c’è la vita di quasi un milione di italiani senza cittadinanza, un numero irrisorio che sembra crescere ogni anno con gli iter burocratici sempre più complessi o falle che compaiono da ogni dove. E ottenere un diritto, come quello di essere riconosciuto in quanto italiano perché si è passata la maggior parte della propria esistenza o addirittura nati in questo paese, diventa una delle sfide più controverse mai affrontate.

Lo Ius Scholae è quello di cui avevamo bisogno oggi per poter quanto meno mettere nuovamente sul tavolo il discorso della cittadinanza e del non riconoscimento dell’identità italiana, il primo passo di una maratona. Bambini nati in Italia ma da genitori senza cittadinanza italiana, ad oggi, possono richiederla solo al compimento dei diciotto anni e sperare di ottenerla il prima possibile; tempi che possono arrivare a pochi mesi, nei migliori dei casi, o, nel peggiore dei casi, anche ad anni. Anni di attesa per la cittadinanza italiana non è solo la sintesi di non essere italiani, ma è un quadro che comprende non poter esercitare il diritto al voto, partecipare a concorsi pubblici, viaggiare in determinate parti del mondo. Non parliamo di una semplice condizione formale, ma di vantaggi per il cittadino di natura civile e politica. E, cosa non meno importante, l’opportunità di lasciar essere italiani ragazzi e ragazze che per tutta la vita rischiano di essere bloccati tra due identità e due paesi e che vivono nel terrore di non poter chiamare casa nessun posto. Molto spesso questi ragazzi sono figli di immigrati che non hanno mai visto il paese d’origine dei loro genitori, ma vengono descritti e riconosciuti come cittadini di quei paesi lontani. Non sono stranieri, ma senza cittadinanza all’università vengono registrati come extracomunitari. Nonostante non ci sia nulla che li differenzi realmente dagli altri, sono costretti a file interminabili, nella grande maggioranza dei casi anche ogni anno, per il rinnovo di un permesso di soggiorno che gli permetta di restare nello stesso paese in cui sono nati.

Abbiamo bisogno che la cittadinanza ai figli degli stranieri nati e cresciuti in Italia diventi un diritto, non un merito, non una medaglia e non qualcosa da conquistare. Lo Ius Scholae apre una finestra su una risposta a questo bisogno, mettendo un freno alle lunghe attese e alle incertezze che per anni hanno visto protagonisti milioni di ragazzi e bambini. Le loro vite, fatte di passioni sogni e lavori futuri, vengono messe a rischio quando non si sentono riconosciuti, quando al tempo stesso vivono facendo da ponte di responsabilità tra la cultura italiana che appartiene loro e quella straniera dei loro genitori. Riconoscerli come cittadini italiani attivi, anche dopo un ciclo scolastico, è un primo riconoscimento di grandissima importanza per loro che non hanno nulla da invidiare ai propri compagni già italiani per Ius Sanguinis. Nati nello stesso ospedale, sotto la stessa stella, imparando a parlare la stessa lingua e diplomandosi allo stesso istituto superiore: uno è italiano, l’altro no. Oggi è inevitabile una riforma della legge sulla cittadinanza, in modo che queste vite non vengano più viste come invisibili, in un’Italia madre che non ha ancora riconosciuto i suoi figli che dice di amare e che la amano.