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di Salvatore Curreri

Il Riformista, 16 settembre 2022

“Sono garantista durante il processo, e giustizialista quando c’è la condanna”, ha detto la leader di FdI. Che mira, con un ddl ad hoc, a neutralizzare la funzione rieducativa della pena, in nome della “sicurezza”.

“Vorrei una campagna elettorale nella quale le forze politiche si confrontano su idee, progetti e visioni del mondo”. Così Giorgia Meloni. Giusto: anziché demonizzarla, prospettando veri o presunti pericoli fascisti, occorre analizzarne le proposte. E allora esaminiamoli i progetti di Fratelli d’Italia sul tema della giustizia. Ce ne offre il destro quanto ha dichiarato durante il confronto con il segretario del Pd: “In Italia da indagato sei colpevole, se sei condannato cominciano gli sconti. Sono garantista in fase di celebrazione del processo e giustizialista in fase di esecuzione. Per risolvere il sovraffollamento si sono cancellati i reati e diminuite le pene, invece di costruire carceri”. Tralasciando altre osservazioni (il sovraffollamento è anche la conseguenza di nuovi reati e maggiori pene), invero nulla di nuovo sotto il sole. L’8 giugno 2021 Fratelli d’Italia (prima firmataria la stessa Meloni) ha infatti depositato alla Camera un progetto di legge (n. 3154) per modificare l’art. 27 della Costituzione sulla funzione della pena, affinché la sua “esecuzione (…) tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”.

Si tratta di una proposta di legge costituzionale…incostituzionale perché se approvata, pur lasciando (furbescamente) intatto il principio per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, gli toglierebbe l’attuale preminenza, affiancandogli, e quindi ponendo sullo stesso piano, l’esigenza di difendere la sicurezza dei cittadini dalla pericolosità sociale del condannato con cui andrebbe dunque contemperato ed equilibrato. Quando i costituenti - alcuni dei quali avevano conosciuto il carcere - discussero della finalità della pena, convennero sulla cosiddetta teoria rieducativa.

La pena, cioè, non deve avere una funzione prevalentemente vendicativa, perché “per il male dell’azione va inflitto il male della sofferenza” (Grozio), né intimidatoria, così da dissuadere il colpevole, e in generale l’intera comunità, dal commettere il reato, ma emendativa, nel senso che deve mirare non tanto alla conversione interiore o al riscatto morale del condannato quanto alla sua trasformazione da delinquente a soggetto pienamente reinserito nella società civile.

Tali tre finalità della pena, dunque, non sono equivalenti (cosiddetta concezione polifunzionale) perché quella rieducativa non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (Corte Cost. 149/2018) e la deve sempre caratterizzare “da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, senza essere “ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”. Tale conclusione non è contraddetta dall’uso del verbo “tendere” che vuole solo significare “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”, che quindi non può essere imposto (Corte cost. 313/1990).

Per avere un “volto costituzionale” la pena deve dunque essere: proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa; flessibile nel corso dell’esecuzione, anziché immodificabile. Non sconti per tutti, dunque, ma premi per chi dimostra la volontà di cambiare vita e reinserirsi nella società. Una pena, invece, che non riesce a promuovere e a valorizzare gli sforzi di riconciliazione e risocializzazione del condannato - quale quella che la proposta di Fratelli d’Italia prefigurerebbe in nome della difesa della sicurezza dei cittadini - non adempie alla sua funzione costituzionale.

Ciò nella convinzione, sottesa all’art. 27 della Costituzione, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società” (Corte Cost. 149/2018).

Sono principi di civiltà giuridica affermati anche a livello internazionale, ad esempio dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, secondo cui “anche gli individui responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso [per cui] se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante” (9.7.2013 Vinter e altri c. Regno Unito). Affermare dunque nel testo della proposta che essa non sarebbe in contrasto con la Cedu è quantomeno temerario e azzardato.

In definitiva, nessuno è perduto per sempre perché “nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo” (H. Hesse). Per Costituzione, ogni condannato, nello scontare la pena, deve avere una speranza, un orizzonte, il diritto ad una seconda possibilità grazie a percorsi rieducativi individuali in grado di recuperarlo alla società. La pena, allora, “non è il male per il male, ma la limitazione della personalità è finalizzata ad una ragione superiore, che è la cancellazione del male stesso” (Aldo Moro). Conosco l’obiezione e la prevengo: il solito buonismo, infarcito di perdonismo da parte di chi vive nelle ZTL e sconosce le condizioni d’insicurezza delle periferie della città.

Ora, a parte che i dati dimostrano che da dieci anni i reati più comuni (rapine, furti, borseggi, omicidi…) sono in calo (il che dimostra come qualcuno strumentalmente soffi sulla paura delle persone…), rieducare il condannato e favorirne il reinserimento sociale non è solo un obbligo morale (oserei ricordare “cristiano” a chi ama circondarsi di madonne…) ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento per assicurare la sicurezza sociale. Difatti, è statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non tendono a fuggire (con conseguenti minori costi di gestione) e, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa un minore tasso di recidività, che vuol dire più (vera) sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato.

Al contrario, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. In tempi di “populismo penale” (Fiandaca) è facile raccogliere i consensi per chi considera il carcere come una “discarica sociale”, anziché comunità di rieducazione, un “cimitero dei vivi” (Turati), popolato da condannati per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera” giustappunto in nome della sicurezza dei cittadini. Peccato che si tratti di soluzioni semplici e alla lunga contraddittorie (la stessa contraddittorietà di chi in nome della sicurezza dei cittadini vietava l’iscrizione anagrafica degli stranieri, impedendone così il controllo da parte dell’autorità pubblica). Una settimana fa, nel silenzio quasi generale, un uomo di 44 anni, segnalato più volte per disturbi psichici, si è suicidato nel carcere di Caltagirone dove era stato rinchiuso per aver rubato un portafogli subito restituito. Nel mese di agosto i suicidi sono stati 15. Nel 2022 (finora) 59, cui vanno aggiunti 1078 tentativi, già superiori ai 57 nel 2021, di cui 5 agenti di polizia penitenziaria (v. il dossier curato dall’associazione Antigone). E da tempo ci si uccide molto di più in carcere che fuori.

Allora, parafrasando Voltaire, se vogliamo capire che idea di giustizia (e forse della dignità umana) ha Fratelli d’Italia e, temo, l’intero centrodestra, chiediamoci che idea abbiano delle carceri, di come secondo loro ci debba vivere (e morire) la gente in nome di una pretesa asserita tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Solo così potremmo non lasciarci convincere da chi punta per calcoli elettorali sul rumore dell’albero quando cade, approfittando del silenzio quando invece cresce.