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di Gennaro Grimolizzi

Il Dubbio, 23 ottobre 2023

L’Intelligenza artificiale presenta delle opportunità che bisogna saper cogliere. Secondo Lucilla Gatt (ordinario di diritto privato e diritto delle nuove tecnologie nell’Università degli Studi “Suor Orsola” e direttrice del Research Centre of European Private Law), il momento storico che stiamo vivendo impone lucidità e capacità di scelta rispetto all’utilizzo degli strumenti messi a disposizione dall’Intelligenza artificiale nel rapporto con la giustizia. Allo stesso tempo non devono essere tralasciate le collaborazioni tra i diversi soggetti coinvolti, pubblici e privati. Un aspetto, quest’ultimo, purtroppo trascurato.

Professoressa Gatt, l’intelligenza artificiale applicata al diritto stravolgerà le professioni giuridiche?

La possibilità che possa prendere corpo una tecnologia cosiddetta disruptive è concreta. È inutile nascondersi dietro un filo d’erba. Dobbiamo essere attenti ad osservare e a comprendere i cambiamenti in corso, dato che le potenzialità dell’applicazione dell’IA generativa potrebbero mutare il volto delle professioni giuridiche. Credo al tempo stesso che occorra avere un approccio caratterizzato da consapevolezza e competenza. L’Intelligenza artificiale potrebbe migliorarne enormemente l’esercizio delle professioni giuridiche e non invece stravolgerlo. Siamo in questo momento di fronte ad un bivio: dobbiamo scegliere cosa fare con questo strumento. Le scelte che sono state fatte sono in parte condivisibili, in parte hanno presentato forti criticità.

A quali criticità si riferisce?

Le criticità che vedo di fronte all’interazione tra IA e giustizia o, più in generale, tra IA e diritto sono diverse. Per prima cosa manca in Italia una visione sistematica e sistemica del rapporto tra Intelligenza artificiale e diritto. A tal riguardo devono essere prese in considerazione delle specificità degli ordinamenti giuridici, che non sono uguali. I Paesi appartengono ai gruppi di Civil law e Common law, ragion per cui le applicazioni possono divergere.

In Italia cosa sta accadendo?

Purtroppo, la situazione non è delle migliori perché a livello governativo, già da tempo, si incentiva l’uso della digitalizzazione del dato giuridico a più livelli, soprattutto negli uffici giudiziari. Tuttavia, oltre a questo elemento, non si è andati oltre. Neppure con la riforma Cartabia, con i provvedimenti sugli uffici del processo. Gli atti normativi hanno di fatto promosso la creazione di data base giurisprudenziali presso i vari uffici giudiziari sparsi sul territorio. Oltre a quanto accaduto nel ministero della Giustizia, occorre ricordare anche il progetto Prodigit che ha un ambito di operatività tematico, dato che è declinato nel diritto tributario. Ma anche questo progetto non ha una valenza ampia, generale e sistemica.

La cyber justice, vale a dire il rapporto tra diritto e tecnologia, tra diritto e IA, paga in Italia il prezzo di una organizzazione non armonica?

Senza collaborazioni e senza collegamenti, le università realizzano data base della giurisprudenza locale. Generalmente si tende a digitalizzare in maniera più o meno perfezionata, con l’ampliamento delle chiavi di ricerca, e si mettono a disposizione dei giudici del luogo i precedenti dei colleghi. Ognuno realizza un sistema informatico non interpretabile, in maniera autonoma. In questo contesto, abbiamo assistito pure a progetti poco partecipati e poco noti nelle fasi di sviluppo in cui ognuno ha fatto per sé. Questo sul versante pubblico.

Nel privato come vanno le cose?

Anche qui si assiste ad azioni individuali e non collegate con il mondo istituzionale. Ci sono delle iniziative meritevoli, che hanno avviato delle sperimentazioni. Penso alla creazione di software che agiscono sul piano dell’IA potenzialmente generativa. Lo spartiacque tra un atteggiamento di stoccaggio e di visualizzazione di precedenti e un atteggiamento di uso massiccio di IA si è avuto all’inizio di quest’anno con la comparsa della famosa ChatGpt. È uno strumento che in qualche modo ha aperto e direzionato l’interazione tra tecnologia e diritto verso un prodotto specifico, che non era più il tradizionale data base. ChatGpt ha indotto i giuristi che si occupavano di cyber justice a utilizzarla per potenziare il rapporto tra i software e l’utente, basato su domande, anche generiche e non particolarmente tecniche. Siamo passati da una visione più legata agli operatori del diritto a una impostazione con i software che devono interagire con un utente non giurista, desideroso di risolvere un problema o che comunque vuole avere delle indicazioni.

Le specifiche esigenze degli utenti cosa hanno portato?

Sono stati sviluppati alcuni prodotti in alcuni casi buoni, in altri casi meno. Per esempio, abbiamo un prodotto che, a mio avviso, è molto interessante. Fa capo ad un gruppo di lavoro, coordinato dall’avvocato Luigi Viola, che ha realizzato Giurimatrix. Si tratta di un software che mira ad interloquire con l’utente con la possibilità di digitare nella stringa simile a quella di ChatGpt un quesito. È stato addestrato in maniera tale da offrire un risultato attraverso un processo non induttivo, che parte dal precedente giurisprudenziale, bensì deduttivo che si articola dal dato normativo.