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di David Allegranti

linkiesta.it, 4 novembre 2023

L’ennesimo suicidio dietro le sbarre, a Caltanissetta, si aggiunge alle altre cinquantatré persone del 2023. Lo stigma legato alla detenzione sembrerebbe essere l’elemento cruciale dietro questo trend costante negli ultimi cinque anni, a esclusione del picco del 2022.

Un altro suicidio in carcere. Stavolta è un ventottenne che sarebbe uscito fra sei mesi e che si è tolto la vita, il 29 ottobre scorso, nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era detenuto dal luglio del 2021. Con la sua morte salgono a cinquantaquattro le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023. “Una media di un suicidio quasi ogni cinque giorni, talvolta con successioni molto rapide, come è accaduto per gli ultimi due casi, avvenuti nell’arco di ventiquattro ore”, calcola l’ufficio del Garante delle persone private della libertà personale.

“È una linea di tendenza che soltanto un ottimismo ingenuo può far pensare abbia segnato, con quello di ieri, l’ultimo caso dell’anno”, argomenta il Garante: “È una linea di tendenza che si è manifestata costante, nei numeri, negli ultimi cinque anni: a esclusione del 2022 con il picco tragico di ottantacinque i dati dal 2018 indicano una costante di suicidi in carcere intorno ai sessanta. Una costante che, considerato il numero odierno, alla fine di ottobre, rischia pericolosamente di essere di nuovo superata”. A questo conto, “in cui ogni caso ha un nome e un vissuto di drammaticità e di fragilità rimasto sostanzialmente inascoltato, devono aggiungersi i “morti per causa da accertare”, giacché spesso gli accertamenti riconoscono nel suicidio la causa della morte: sono 21 dall’inizio dell’anno”.

Nell’aprile di quest’anno, il Garante nazionale ha pubblicato un interessante e tragico studio sui suicidi in carcere. Nel 2022, si sono tolte la vita ottantacinque persone, di cui ottanta erano uomini e cinque donne. “Se si prende in considerazione non solo lo stesso numero di mesi ma tutti i dodici mesi per ogni anno, si tratta del più alto di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni”, scrive il Garante nazionale nella sua analisi: “Tale dato risulta ancora più allarmante se lo si rapporta al totale della popolazione detenuta nei diversi anni: infatti, nel 2022 si registra una popolazione detenuta media visibilmente inferiore a quella del 2012 - ben undicimila seicento ottantasette persone detenute in meno - ma con ventinove suicidi in più rispetto a quelli verificatisi in quell’anno. Negli ultimi dieci anni, negli Istituti penitenziari nazionali, si sono verificati cinquecento ottantanove suicidi, di persone di età compresa tra i diciotto anni e gli ottantatré anni, quasi la metà delle persone era in attesa di una sentenza definitiva (tasso simile alle persone che si sono suicidate nel 2022)”, scrive ancora il Garante nella sua analisi.

Alcuni dei detenuti che si sono suicidati nel 2022 stavano per uscire dal carcere, come nell’ultimo caso del ventottenne a Caltanissetta. “Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite. In questi casi sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo. Cinquanta persone, pari al sessantadue per cento del totale, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, ventuno nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e quindici entro i primi dieci giorni, nove delle quali addirittura entro le prime ventiquattro ore dall’ingresso. Questo vuol dire che circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere”.

Inoltre, fra le ottantacinque persone suicidatesi nel 2022, cinque avrebbero completato la pena entro l’anno in corso quarantadue avevano una pena residua inferiore a tre anni; solo quattro avevano una pena residua superiore ai tre anni e di cui una aveva una pena residua superiore ai dieci anni. “Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben diciassette casi”.

Già in questo dossier di aprile il Garante aveva ricordato che il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di diciotto volte a quello dei suicidi nella società libera: “Le risposte e la ricerca di soluzioni non sono certamente semplici e investono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali se, come abbiamo segnalato in più occasioni, sono numerosi i casi di suicidio che si verificano nelle prime settimane di detenzione e anche numerosi quelli a poco tempo dall’uscita dal carcere, magari dopo una lunga detenzione: delle cinquantaquattro persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno fino a oggi, tre sarebbero uscite entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine”.

È assai difficile, per non dire improprio, “connettere questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva, soprattutto se sperimentate per molto tempo e se si è prossimi a lasciarle. Più serio è ricondurle a quella mancanza di prospettive e a quello stigma sociale che attende spesso chi esce dal carcere, di cui tutta la società esterna è responsabile. Per questo interrogano tutti noi”, ribadisce oggi il Garante nazionale.

Di carcere insomma si continua a morire. Perché il carcere non è solo l’università del crimine, come diceva già Tocqueville. È anche il posto in cui i ristretti, posti sotto tutela dello Stato, non possono vivere ma devono sopravvivere. Perché, magari, non hanno l’assistenza sanitaria adeguata, come spiegano i detenuti di Rebibbia in una lettera resa pubblica da Antigone, nella quale si appellano ai medici alla ricerca di aiuto: “Il carcere, come anche il mondo esterno, risente molto dai tagli e dalle difficoltà che il Servizio Sanitario Nazionale subisce”, sottolinea Antigone, associazione presieduta da Patrizio Gonnella: “Con l’unica differenza che, per chi è recluso, non c’è la possibilità - anche laddove ci siano le risorse economiche - di affidarsi a visite specialistiche private. Questo comporta tempi di attesa a volte anche di alcuni mesi. Inoltre, non in tutte le carceri, l’assistenza medica o infermieristica è fornita per tutte e ventiquattro le ore della giornata. Spesso, al fianco dei medici di medicina generale, mancano gli specialisti o la loro presenza è prevista solamente per poche ore”.

Drammatiche le parole dei detenuti contenute nella lettera: “La realtà del carcere è dura, difficile e impegnativa per medici e personale sanitario almeno quanto quella in un Pronto Soccorso, ma senza le relative indennità e le possibilità di carriera. Fate bene a richiederli alle autorità sanitarie regionali e nazionali, noi e i nostri familiari vi sosteniamo…. ma non ci abbandonate! Abbiamo bisogno della vostra professionalità e competenze! Siate umanamente solidali con noi come noi lo siamo con voi, con le vostre richieste. Venite in carcere, curateci, fate in modo che i giovani medici vi affianchino a fare tirocinio. Che esperienza straordinaria farebbero affermando sul campo il diritto alla cura e che occasione avrebbero per superare paure e pregiudizi e scoprire quanta umanità c’è dietro le sbarre”. Una umanità che chiede di poter vivere.