di Valentino Maimone
La Ragione, 19 settembre 2024
Facciamo così: visto che la contabilità dei suicidi in carcere sta evidentemente provocando assuefazione- se è vero che il tassametro continua a scorrere al ritmo di un caso ogni 3 giorni e mezzo e ormai la notizia finisce in coda ai tg o in un trafiletto in basso a sinistra - proviamo ad affrontare l’argomento da un’altra prospettiva. I suicidi sono la prima causa di morte dietro le sbarre (fonte: Garante dei diritti dei detenuti). La fascia di età in cui si registra il maggior numero di detenuti che si tolgono la vita è quella fra i 18 e i 24 armi (dati del Ministero della Giustizia). Che cosa sappiamo di questi giovani? Nulla più di qualche gelida riga su un comunicato istituzionale. Quanto ci preoccupiamo del percorso di recupero che avevano intrapreso, delle loro responsabilità (un detenuto su tre è in attesa di giudizio), dei motivi che li hanno spinti a farla finita, della sofferenza delle loro famiglie? Ancora meno, cioè niente.
Non aveva neanche 25 anni Aldo Scardella quando, all’alba del 26 dicembre di tanti anni fa, una pattuglia della Squadra mobile di Cagliari si presentò a casa sua per una perquisizione. Gli investigatori si erano convinti di aver individuato in lui, studente universitario incensurato, uno dei banditi che tre giorni prima avevano rapinato un negozio di liquori e ucciso il titolare.
“Lo portarono in Questura, poi non ne sapemmo più nulla. Per dieci giorni nessuno comunicò ai miei genitori in quale carcere lo avessero portato. E anche quando lo venimmo a sapere, ci impedirono di andarlo a trovare per tre mesi e mezzo” ci racconta oggi il fratello Cristiano.
“Per dieci giorni non poté usufruire di un difensore, perché con scuse sempre diverse non gli fu consentito di firmare la delega necessaria ad attribuire il mandato. E anche quando ci riuscì, quel difensore non lo incontrò mai”.
Ad Aldo Scardella fu negata l’autorizzazione ad assistere alla Messa di Pasqua, ad appendere poster e disegni alle pareti della sua cella, dove peraltro la luce non veniva spenta neanche di notte. Intanto diverse perizie avevano escluso che il giovane avesse sparato o indossato il passamontagna ritrovato nelle vicinanze di casa sua. E il pm non tenne conto di un’altra pista concreta indicata dalla polizia.
Poi arrivò il 2 luglio 1986. “Lo trovarono impiccato nella sua cella. Accanto al corpo c’era un biglietto con su scritto “Muoio da innocente” “ ricorda Cristiano. “Nel suo sangue c’era metadone, nonostante non fosse mai stato un tossicodipendente. Noi familiari avevamo potuto vederlo solo tre volte in sei mesi. Venne fuori che il giudice istruttore non lo aveva mai interrogato e aveva condotto un’attività processuale ‘esigua’. Eppure quel magistrato se la cavò con una censura del Csm. In seguito saltarono fuori i veri responsabili di quella rapina. Se solo penso alla disperazione che deve aver provato mio fratello, sto male ancora oggi”.
Nessuno meglio di Cristiano Scardella sa cosa vuol dire suicidarsi dietro le sbarre: “Questa storia ha tolto la vita al mio adorato Aldo e ha rovinato per sempre la mia. Al di là di quelle mura c’è una sofferenza immane, una solitudine impossibile da capire per noi che siamo fuori. Le istituzioni ci mettono del loro, costringendo i detenuti a vivere in condizioni indecenti. I media si ricordano di quel mondo solo quando ci sono le rivolte, senza però approfondire i veri motivi del disagio che porta i detenuti a esplodere.
Il carcere può piegare chiunque, anche chi crede di essere forte. Ecco perché si può arrivare al suicidio, proprio com’è capitato a mio fratello. E non c’entra essere innocenti o colpevoli: come qualunque essere umano, anche loro hanno diritto a essere trattati con dignità”. La sua amarezza è tutta in una considerazione finale: “Non posso pensare che probabilmente quel che è successo ad Aldo stia succedendo ad altri. I tempi sono diversi, è cambiato il codice di procedura penale, ma se mi guardo attorno l’impressione è che si sia fatto ben poco per andare davvero avanti. E questo mi fa soffrire”.