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di Luigi Manconi

La Repubblica, 13 agosto 2023

Difficile trovare un luogo del mondo più isolato e desolato di una cella di un carcere di mezza estate. Più isolato dal punto di vista simbolico, dal momento che gli altri, coloro che non sono privati della libertà, cercano un altrove dove ricavare, bene o male, un qualche respiro e un qualche conforto per le pene del corpo e dell’anima. E più isolato concretamente, perché, in quel tempo sospeso che è la settimana di Ferragosto, le attività e le presenze rallentano e si diradano, si fanno fatalmente più distratte e indifferenti.

Ma questo non basta a spiegare quanto è accaduto nel carcere di Torino, dove una donna nigeriana di 43 anni, Susan John, madre di due bambini, ha cercato e trovato la morte, privandosi del cibo e dell’acqua: perché ha evidentemente pensato che quella morte fosse l’unica possibilità di dare un qualunque senso a ciò che restava di una esistenza di cui le andava sfuggendo qualsiasi significato e prospettiva. Nessuno ha potuto o voluto darle una mano. Ora l’Amministrazione del carcere scrive che la donna avrebbe “rifiutato il ricovero d’urgenza in ospedale”. Ma queste parole certificano il senso ultimo e più tragico di questa vicenda: il vero e proprio fallimento dello Stato di diritto. Una persona detenuta, che si trova dunque nella custodia dello Stato, rappresenta per esso il bene più prezioso. Le istituzioni, i loro apparati e i loro uomini, sono i garanti della incolumità di quel corpo prigioniero, ne devono tutelare la salute e la sopravvivenza.

E ciò perché lo Stato è responsabile, nel significato più alto del termine, della vita e della dignità della persona in sua custodia: e su questo si fonda la sua legittimazione giuridica e morale a rappresentare la comunità dei cittadini e a chiedere loro il rispetto delle leggi. Quando l’autorità pubblica non garantisce l’incolumità di chi le è affidato, essa entra in una crisi irreversibile. Questo è accaduto a Torino, dove il fallimento del carcere come istituzione dello Stato si è tradotto nell’assenza di cura e di assistenza, di sollecitudine e di preoccupazione, di attenzione e di riguardo da parte, evidentemente, del personale nei confronti di quel corpo che decadeva e deperiva. Lo conferma il fatto che, di quel digiuno disperato, non era stata informata l’opinione pubblica e non erano stati avvertiti i Garanti dei diritti dei detenuti, quasi vi fosse stata una dichiarazione generale di dimissione di responsabilità. Dunque, un sistema penitenziario che si conferma criminogeno e patogeno, che riproduce all’infinito delitti e malattie, regressione mentale e autolesionismo, violenza endogena e scialo di morte e speranza, sembra volersi chiudere ancora di più in sé stesso.

Qualche mese fa si è appreso, solo dopo la loro morte, del fatto che due detenuti del carcere di Augusta erano impegnati da mesi in uno sciopero della fame. Evidentemente le autorità del carcere avevano ritenuto che la cosa fosse priva di qualsiasi interesse pubblico. Alla stessa sorte sembra destinato Domenico Porcelli, che digiuna da oltre cinque mesi nel carcere di Bancali nei pressi di Sassari, senza che vi sia un intervento delle autorità e uno straccio di mobilitazione, destinati a salvargli la vita. Ma come è pensabile che questo accada? Come è possibile che la nostra organizzazione sociale e il nostro sistema politico-istituzionale rinuncino a proteggere tante vite di concittadini? È come se si desse per scontato che una quota della nostra società, messa ai margini dalle più diverse circostanze della vita, sia obliteratile.

Ovvero faccia parte, ma solo fino a un certo punto, del nostro sistema di cittadinanza: possa esserne escluso, espulso, sospeso e, infine, cancellato. Il sistema penitenziario italiano è lo specchio oscuro e sinistro di tutto ciò. All’interno della popolazione detenuta i suicidi sono 16-17 volte più frequenti di quanto siano all’esterno; e negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita 100 poliziotti penitenziari (il numero più alto tra tutti i corpi di Polizia). Intanto, il collegio nazionale dei Garanti delle persone private della libertà personale attende di essere rinnovato ormai da molti mesi.

Il ritardo pare si debba a raffinatissimi calcoli di spartizione all’interno della maggioranza di governo, mentre la candidatura di Rita Bernardini - che più di chiunque altro merita quel ruolo - sembra non esser presa in alcuna considerazione. E la macabra contabilità dei suicidi non conosce sosta: aveva 28 anni e aveva commesso piccoli furti Azzurra Campari che, sempre a Torino, si è impiccata nel pomeriggio di due giorni fa. La cella di un carcere di mezza estate può essere davvero il luogo più abbandonato e desolato del mondo.