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di Concita De Gregorio

La Repubblica, 5 marzo 2022

I detenuti del carcere di Frosinone hanno scritto il libro “Letteratura d’evasione”. C’è bisogno di evadere un po’. Alcuni più di altri, certo. È sempre una questione di punti di vista, di condizioni date. Trovare sollievo da cosa. Arrivano immagini di fuga, si capisce bene scappare da dove e perché. Quanto alle colpe, a prima vista evidenti, subito sale la nebbia.

Al quinto giorno, già, dipende: il dibattito è aperto. Arrivano immagini dalle carceri russe. Torture inguardabili, figuriamoci subirle, filmate per volontà dei secondini. Poi senti al tg che vengono incarcerati madri e figli che portano fiori.

Incarcerati dove? In quelle carceri? C’è bisogno di evasione, apro un libro che s’intitola così: “Letteratura d’evasione”. Che coincidenza felice che arrivi nella posta stamani, no? Poi, sorpresa: è una raccolta di scritti di un gruppo di detenuti. Titolo geniale. Merita il tempo. Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi in prefazione. Bergonzoni annuncia “una perquisizione”, sì, ma “nelle stanze interiori”. Manconi illumina, come al solito. Il “lessico infantilizzante del carcere”. Domandina, scopino, spesino. “La riduzione in stato di minorità (minore età) del recluso definita dal linguaggio, diminutivo e vezzeggiativo, dell’infanzia”.

Il “corpo come carta”, sul corpo - residua proprietà - il tatuaggio, la pelle strumento di autobiografia. Federica Graziani e Ivan Talarico hanno organizzato “una evasione di massa legale dal carcere di Frosinone”: dieci incontri con sedici reclusi. Le autobiografie reali e quelle immaginarie, che viaggio. Le ragioni per cui. Scrivo per “prendere in mano la vita” (Alfredo Colao), “l’unica cosa che non si può imprigionare è la mente” (Emanuel Mingarelli). Scrivo perché “in questo poco tempo io ero altrove” (Antonio Vampo). Evadere, essere altrove.