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di Chiara Cruciati

Il Manifesto, 11 giugno 2023

Intervista alla scrittrice Tugba Dogan: “In questo carnevale della post-verità, la classe povera non vede nell’opposizione laica un’alternativa. Non sorprendono le politiche di Erdogan contro le donne, ma la resistenza sarà potente: il movimento femminista porta avanti una dissidenza coraggiosa e anticonformista”.

Ad Ankara il presidente rieletto Recep Tayyip Erdogan nomina ministri e imbastisce le politiche del futuro, probabilmente fotocopie del passato. Intanto nella capitale Firat Can Arslan, giornalista della curda Mezopotamya Agency viene arrestato in casa sua con l’accusa di “propaganda terroristica”. Non è il solo: nel 2023 sono già una decina i giornalisti detenuti, 195 quelli a processo. Nello stesso periodo, da gennaio a maggio, la piattaforma We Will Stop Femicide ha registrato 126 femminicidi, a cui si aggiungono 101 casi sospetti. Solo a maggio uomini hanno ucciso 40 donne, in un paese uscito dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere perché considerata strumento contro la famiglia naturale.

Di cosa possa accadere dopo il voto ai diritti delle donne, delle persone Lgbtq+ e a ogni voce critica, abbiamo parlato con Tugba Dogan, scrittrice turca, tradotta in italiano da Carbonio editore (Il bistrò delle delizie, pp. 168, euro 15).

Erdogan ha vinto ma il paese è spaccato in due. Cos’è la Turchia di oggi?

In Turchia viviamo da anni in una sorta di carnevale della post-verità. Il gigantesco controllo dell’Akp sui media e l’enorme numero di troll social pagati produce e diffonde costantemente contenuti falsi e disinformazione. Oppositori politici, giornalisti, accademici e artisti sono in prigione senza giustificazione legale e ogni voce dissidente nella società subisce brutali campagne di criminalizzazione. Non è una partita imparziale per nessun tipo di opposizione. Penso che l’opposizione però - un insieme di tanti partiti politici che rappresenta il 48% - dovrebbe prendersi del tempo e pensare al proprio ruolo nel potere finora invincibile dell’Akp (il partito del presidente Erdogan, ndr), specialmente tra le classi basse.

Perché un’opposizione laica e di sinistra da milioni di persone della classe povera non è considerata un’alternativa?

Il 48% della società condivide questo sentimento: “Hai vinto tu ma io avevo ragione”. Una sorta di pessimismo temporaneo e di risentimento. E forse di fatalismo, un fatalismo laico. Ma finché non renderemo conscio l’inconscio, a dettare le nostre vite sarà quello che chiamiamo destino come Carl Gustav Jung ci avvertiva. Questo 48% che condivide l’idea che qualcosa debba cambiare in senso democratico dovrebbe prendersi il rischio e la responsabilità dell’auto-critica. È anche possibile che per la maggioranza della società la democrazia non sia una priorità. Significa che è necessario sviluppare una nozione di democrazia e una sua consapevolezza. Ci vuole tempo ed è cruciale affrontare gli errori del passato e i crimini commessi dallo Stato nella sua storia.

Questa opposizione riuscirà a restare unita o si dividerà?

Un’altra domanda potrebbe essere: dovrebbe proseguire su questa linea o dividersi per costruire posizioni politiche reali per il futuro? Il 48% è un numero importante ma non possiamo aspettarci che la gente faccia il lavoro dei politici. In questa campagna elettorale molti elettori sono dovuti restare in silenzio su molti errori per il bene del blocco di opposizione, ma sono stati fatti troppi compromessi. Ai curdi veniva chiesto quali fossero le loro “vere intenzioni” e la loro “agenda nascosta”, ai socialisti di sedersi accanto a estremisti di destra. E nonostante ciò la voce unica non ha funzionato. Chi dice “democrazia” si sente rispondere “sì, ma non oggi”. Il problema della democrazia in Turchia è più grande di qualsiasi elezione e va discusso. Se vuoi che le cose cambino, devi convincere le masse. Non lo fai dicendo quanto sei simile al tuo rivale, ma trovando un linguaggio che dica che sei diverso e che legittimi quella differenza.

Uno degli elementi più preoccupanti è l’idea nazionalista che esista una sola identità, la turca sunnita. Scompaiono fedi, etnie, posizioni politiche e generi diversi. Cosa si aspetta in termini di censura delle voci dissidenti?

Prima delle elezioni, nell’arco di vent’anni la libertà di pensiero ed espressione era già la più presa di mira. È un’assurdità che centinaia di oppositori e intellettuali - come Selahattin Demirtas e Osman Kavala - siano in prigione. Visti i risultati elettorali, è ovvio che ci resteranno. Ed è anche probabile che limitazione e oppressione delle libertà crescano. Il governo probabilmente prenderà misure ancora più dure contro il dissenso. Non è paranoia, è realismo. Cosa si può fare? Penso sia una domanda a cui rispondere. Ad esempio, la detenzione di Demirtas non gli ha impedito di vivere lo spazio politico e di produrre reazioni. Gli ideali non si imprigionano.

Con un parlamento ancora più a destra e la minaccia ai diritti civili, sociali e di genere, cosa accadrà ai diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+ e alla battaglia per laicità ed eguaglianza? Il movimento femminista è uno dei più forti perché sa immaginare una società più equa per tutti e sa resistere alla narrativa neoliberista islamista del governo...

Persone Lgbtqi+ e donne sono stati i principali target della campagna elettorale di Erdogan. Nei suoi discorsi si è riferito alla comunità Lgbtqi+ come a un’organizzazione terroristica che minaccia “la struttura autentica della famiglia turca”. I riferimenti all’islam sono stati usati per criminalizzarla. Un paio di mesi prima del voto, conservatori e fondamentalisti islamici hanno organizzato una grande marcia contro le persone Lgbtqi+. Era stata autorizzata, cosa che non avviene con il Pride. E poi c’è il movimento femminista, una delle voci politiche più potenti, come lo è quella del movimento curdo. Le donne hanno una lunga storia di attivismo. Non sorprende che le politiche di Erdogan rendano la loro vita più difficile, ma la resistenza sarà egualmente potente. Perché contro ogni ostacolo le donne hanno portato avanti una dissidenza coraggiosa senza cadere nel conformismo.

Nel suo libro, “Il bistrò delle delizie”, Salih decide di lasciare la Turchia. State perdendo la vostra miglior gioventù?

Sfortunatamente sì. Ne Il bistrò delle delizie, il protagonista Salih è un giornalista che decide di andarsene per sempre, dopo essere stato licenziato. Pianifica di trasferirsi in Brasile. Pensa sia la decisione giusta visto il clima politico in Turchia, ma scavando nella sua vita passata si vede che questa è solo una parte della motivazione. Oggi in Turchia moltissimi giovani non vedono alcun futuro. Essere costretti a restare sconnessi dal resto del mondo, un mondo in cui i valori comuni e universali di umanità possano ancora essere nutriti, li obbliga a considerare l’emigrazione e a crearsi una vita altrove.