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di Enrico Fiore

Corriere del Mezzogiorno, 4 agosto 2023

“Davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, Colonne d’Eracle, c’era un’isola. Tale isola, poi, era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme, e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta, intorno a quello che è veramente mare”.

Sono le parole con le quali, nel “Timeo”, Platone introduce il discorso su Atlantide. E ben a ragione possono essere assunte sotto specie di epigrafe rispetto a quanto contiene il nuovo progetto di Armando Punzo, intitolato per l’appunto “Atlantis” e il cui primo capitolo, “La permanenza”, è stato presentato nella Fortezza Medicea, la casa di reclusione di Volterra. Infatti, basta confrontarli anche sommariamente per rendersi conto di come i concetti espressi da Platone coincidano, in misura notevole, con quelli esposti da Punzo nelle sue note di regia.

Platone, come s’è visto, parla innanzitutto della “foce”, parla, cioè, della parte finale di un fiume che si versa nel mare, in altri termini di qualcosa che tende irrinunciabilmente verso una dimensione della sua stessa natura acquorea ma di sé molto più vasta e in cui si annulla in quanto entità “autonoma”. E poi parla di un’isola grande che offre il passaggio ad isole più piccole che a loro volta offrono il passaggio a un intero continente grande al punto di circondare il mare. Il filosofo ateniese, insomma, insiste sullo scambio perenne, e perennemente fruttifero e salvifico, tra il limitato el’ illimitato, ovvero tra l’Io e il mondo, tra le pulsioni interiori dell’individuo e i connotati dell’esistere quotidiano di quell’individuo in seno alla collettività.

Dal canto suo, Punzo apre le sue note scrivendo: “Permanere non è immobilità, è affermazione di stato, è conquista di un altro luogo, non è beata torre d’avorio, fuga dalla realtà, è consapevolezza di una scelta, è conoscenza, è sapere, è frutto faticoso di un lavoro che agisce interiormente nell’uomo ed esteriormente nel mondo, è riconoscimento e contenimento dell’Io ordinario, purificazione, eliminazione di una parte nota dell’essere umano a favore di un Io superiore, una parte in potenza meno nota, comunemente poco frequentata, sacrificata da quella che sembra essere la dura sostanza concreta della vita”. Evidente,

“È come l’Itaca di Kavafis: non è importante la città, che forse non esiste nemmeno, ma il viaggio che si compie verso di essa e sé dunque, la somiglianza con il discorso metaforico sviluppato da Platone a proposito di Atlantide. Ma, prima di proseguire con l’analisi dello spettacolo che ho visto nel carcere di Volterra, credo sia indispensabile che mi fermi a riflettere su un altro, particolarissimo, significato del termine “permanenza”, che esula da quelli comuni elencati dai dizionari.

Il sostantivo “permanenza” indica, certo, il persistere nel tempo, e quindi è l’opposto del sostantivo “provvisorietà”. Ma in matematica indica il principio delle proprietà formali per il quale, ogni volta che si amplia un insieme numerico (quando si passa, per esempio, dai numeri interi ai numeri razionali), si conservano le principali proprietà delle operazioni. Ed è proprio quel che accade nel fare teatro di Armando Punzo.

Così, “La permanenza”, primo capitolo del nuovo progetto “Atlantis”, contiene non trascurabili elementi di “Naturae”, l’ultimo capitolo - presentato a giugno in apertura del cinquantunesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia e durante il quale è stato attribuito a Punzo il Leone d’Oro alla carriera - di un precedente progetto che ha implicato una ricerca durata ben otto anni e ha prodotto, dopo l’”ouverture” del 2019, i quattro quadri “La vita mancata” (2020), “La valle dell’innocenza” (2020), “La valle dell’annientamento” (2021) e, appunto, “La valle della permanenza” (2022). E, al di là dei loro pur alti valori contenutistici e formali, questi progetti (compreso, dunque, lo spettacolo di cui parliamo) s’impongono perché costituiscono uno specchio fedele della stessa vicenda biografica di Punzo.

Come Orazio, Armando Punzo, nato nella minuscola Cercola, ha “spiegato ali maggiori del nido”. E quelle ali prima lo hanno portato in un nido ancora più angusto, il carcere di Volterra, e poi gli hanno consentito, partendo proprio dall’angustia del secondo nido, di spiccare il volo verso la fama, alla testa dei meravigliosi attori-detenuti dell’ormai celebre Compagnia della Fortezza.

Torniamo, perciò, alla dialettica tra il “piccolo” e il “grande” a cui ho accennato in apertura come all’elemento fondante e del progetto “Atlantis” in generale e dello spettacolo “La permanenza” in particolare. Per riassumere, il teatro di Armando Punzo si pone come un viaggio che è, puramente e semplicemente, il viaggio della vita: un viaggio che non ha un inizio e una fine dati per sempre, ma è tale che, in qualsiasi momento, l’inizio può essere la fine e la fine

Regista l’inizio. Ed è per questo che ne “La permanenza”, come Punzo ancora scrive nelle sue note di regia, “Il tema è il tema che non c’è. Non quello già dato, che già conosciamo, non i temi predefiniti dai bandi nazionali ed europei, non quelli socialmente e politicamente corretti, utili alla moda, ma quello nuovo e impensabile che possiamo scoprire nel nostro viaggio creativo. L’uomo ideale è sempre presente. La ricerca della possibile perfezione nella natura umana è la luce verso cui orientarci”.

Insomma, l’”Atlantis” di Punzo è l’Itaca di Kavafis: non è importante Itaca, che forse non esiste nemmeno, ma il viaggio che si compie per raggiungerla, per raggiungere, cioè, la coscienza di sé e del proprio posto nel mondo. E bisogna che quel viaggio sia lungo, e che sappia accogliere tutte le esperienze e gli incontri possibili.

Del resto, s’identifica con quello di Punzo il mio stesso viaggio nel suo universo in quanto spettatore di professione. Ho visto “Naturae” all’Arsenale di Venezia, nell’ora di Cardarelli: “quando di sera, simile ad un fiore / che marcisce, la grande luce / si va sfacendo e muore”. E ho visto “La permanenza” - già, la fine che diventa l’inizio, il “grande” che cede il passo al “piccolo” - dentro il carcere di Volterra, nell’ora pomeridiana di Borges che “sta per dire qualcosa” ma “non la dice mai o forse la dice un’infinità di volte e noi non la capiamo”.

Voglio intendere che “La permanenza”, annunciato ufficialmente come spettacolo, nel suo farsi nega tutto ciò che di solito gli spettacoli di oggi dispensano a piene mani: il racconto, la recitazione imprigionata nella pura tecnica, l’intrattenimento soporifero. E, invece, propone allo spettatore una sfida inesausta e tremenda, appunto quella di capire quanto non viene detto o viene detto infinitamente proprio per rimarcare la nostra incapacità di capire.

In altri termini, anche agli spettatori tocca un viaggio, esattamente fisico oltre che mentale. Partono tutti insieme dal cortile destinato all’ora d’aria dei detenuti. E poi si sparpagliano, confusi coi detenuti medesimi che gli porgono citazioni vertiginose, domande intrise di dubbio, grumi di pensieri migranti come uccelli di passo. Ognuno di loro si fa la sua personale “ora d’aria”. Entrano a caso in stanze che diventano, così, gli “empori fenici” in cui Punzo - esclamando a un certo punto: “I venti non soffiano mai in linea retta” - consiglia ai viaggiatori propri “belle mercanzie” come ai suoi il Greco d’Alessandria. A me è capitato di entrare in una stanza quasi completamente tappezzata di specchi e nella quale imperversava, un po’ dappertutto, la parola “hybris”.

Ora, se, per concludere, debbo trovare per quest’evento un senso riassuntivo, posso trovarlo - ed ovviamente, dato il contesto in cui l’evento si è determinato - nei versi di quel Nazim Hikmet che visse poco più di sessant’anni dei quali molti trascorsi in carcere perché, comunista, ebbe complessivamente condanne per 56 anni. Scrisse: “La vita non è uno scherzo. / Prendila sul serio / come fa lo scoiattolo, ad esempio, / senza aspettarti nulla / dal di fuori o nell’al di là. / Non avrai altro da fare che vivere”.