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recensione di Enrica Riera

L’Osservatore Romano, 7 maggio 2023

“Fuori” di Birgit Birnbacher, la storia emblematica di un giovane detenuto. Non è importante conoscere il motivo per cui Arthur Galleij sia stato dentro, è importante capire perché adesso che è fuori non riesca a ricominciare. Ora che tutto sembra nuovo - i telefoni, per esempio, non sono più quelli di un tempo ed è cambiata addirittura la modalità con cui si ordina un caffè; non ci sono più le linee di tram, autobus e metropolitana di una volta e, al contempo, è la città stessa a mostrarsi trasformata, un “essere” estraneo, straniero - questo giovane uomo pare essere rimasto vecchio, indietro: non più al passo, tagliato letteralmente fuori dal “sistema”.

Come farà, dunque, dopo gli anni di prigione, a ottenere un lavoro? Ma soprattutto chi, nella Vienna che appare così simile a qualunque città italiana per modo di pensare la “dimensione carcere”, sarà disposto a dargli un’opportunità? È meglio essere se stessi o mostrare un’immagine di sé distorta ma più simile a quella che gli altri vorrebbero vedere?

Questi, soprattutto, e altri sono gli interrogativi fondamentali in cui ci imbattiamo mentre leggiamo “Fuori” (Napoli, Mar dei Sargassi, 2022, pagine 221, euro 18, traduzione di Emilia De Paola) della sociologa e scrittrice di Salisburgo Birgit Birnbacher.

Domande che, considerate le cronache italiane e non solo, non possono purtroppo che rimanere senza risposte. Quando si dismette la propria condizione di detenuto, si è realmente liberi? A seguire è non a caso un silenzio che assorda. Un romanzo-denuncia, pertanto, questo sul ventiduenne condannato a ventisei mesi di reclusione e rilasciato nell’estate del 2020: Arthur fa fatica a tornare alla normalità, ha perduto le relazioni familiari e quelle che hanno a che fare con le cose di tutti i giorni, con la quotidianità.

È un protagonista - ce ne rendiamo conto man mano che andiamo avanti nella lettura, fatta di rimandi al tempo passato e al tempo futuro e tra l’altro ben costruiti in questo gioco di incastri da cui deriva anche una certa suspence - che ha mille volti. Arthur ha, cioè, mille volti perché rappresenta quello che vivono gli uomini e le donne accomunati dall’aver fatto esperienza della detenzione, a prescindere dalla nazionalità, dal luogo di provenienza.

Per molti “ex reclusi” basta aver scontato la pena, quella stessa pena che - almeno secondo la Costituzione italiana - dovrebbe rieducare e includere all’interno della società fuori dal carcere, per ottenere una seconda opportunità? O lo stigma della cosiddetta risposta sanzionatoria dello Stato non verrà mai annullato?

“Mi chiamo Arthur Galleij, ma in realtà il mio nome avrebbe dovuto essere un altro. Sono nato il 29 maggio 1988. Il nome preferito di mia madre era Mario, ma mio padre ha imposto la sua volontà. In realtà non so molto di quel periodo. Singole storie, con cui più tardi ricostruire una provenienza. Quella del nome è in qualche modo rimasta presente. Ci ho pensato più spesso in carcere. Forse il ricordo di una seconda possibilità. Reset, e tutto ricomincia da capo. Nuovo nome, tutto da capo. Ma questo è solo uno stupido sogno”, racconta in prima persona il protagonista già deluso, per l’appunto, da quello che lo aspetta o che potrebbe aspettarlo.

Pagina dopo pagina, ciò che emerge, quindi, è una fortissima critica sociale, una critica a una comunità che non riesce ad accogliere chi sbaglia, a perdonare, a infondere speranze, poi da concretizzare. Una riflessione dura, durissima, che ha il pregio di non “macchiarsi” di alcun giudizio morale e che - senza rivelare troppo - sa anche dirci, alla fine e nonostante le tortuose difficoltà del giovane Arthur, che, se guardiamo a fondo e bene, uno spiraglio di luce nell’oscurità ci deve essere, ci può davvero essere. Perché, in ultima analisi, leggere questo libro (e magari proporlo anche ai ragazzi nelle scuole)?

La risposta è semplice e sta in quanto scrive nell’interessante prefazione Sara Benedetti: “Il carcere è questione di tutte e tutti, è argomento di cui dovremmo occuparci assiduamente con l’esercizio del pensiero individuale e con il confronto democratico. Invece, risulta essere, insieme alle case di riposo e ai cimiteri, uno dei luoghi rimossi del nostro tempo, rimossi perché ospitano ciò che non si vuole vedere, ciò con cui è difficile misurarsi: l’errore, la vecchiaia, la morte”. Ebbene, è arrivato il momento - non è mai troppo tardi - di non voltarsi dall’altra parte, di guardare oltre, di vedere l’uomo e le cose che ci fanno spavento.

E di diventare consapevoli che, dentro o fuori, ciò che anima tutti noi è quel vero e proprio anelito di libertà che, per parafrasare una preziosa pronuncia della Corte Costituzionale del 1993, va sempre difeso e salvaguardato, specie quando è ridotto, piegato su stesso. Così, se “il carcere, per le tante funzioni che sembra dover assumere, diventa segno evidente di una società che si è arresa, che non è in grado di garantire opportunità ai suoi membri svantaggiati - si legge ancora nella prefazione di Benedetti - che nulla può per contrastare le derive del capitalismo e della forbice sociale”, vuol dire che anche i nostri brandelli di libertà, quelli in cui può espandersi la personalità individuale e la dignità, non hanno più ragione d’essere. Un romanzo in cui nessuno è innocente.