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ansa.it, 11 luglio 2023

Articolo premiato a Beirut dalla Fondazione Samir Kassir. Un vero e proprio girone infernale è quello in cui si trovano a vivere da anni più di un migliaio di detenuti siriani, vittime di torture e abusi nelle superaffollate carceri libanesi, in interminabile attesa di processo ed esposti a malattie causate dalle percosse, dalla sporcizia, dalla malnutrizione e dalla mancanza di cure mediche. E’ quanto emerge dall’inchiesta “Sotto tortura confesso qualsiasi cosa”, scritta da Pascale Sawma, giornalista libanese, premiata di recente a Beirut dalla giuria del Premio di giornalismo internazionale della fondazione SKeyes e intitolato a Samir Kassir, l’intellettuale libanese ucciso in un attentato nel 2005.

Il lavoro di Sawma, pubblicato nel novembre del 2022 ma premiato lo scorso giugno e che conferma una serie di violazioni già denunciate da Amnesty International, si basa su una raccolta inedita di testimonianze di detenuti e di loro parenti circa le sofferenze inflitte a questi siriani, sospettati di “terrorismo” ma mai riconosciuti colpevoli dai tribunali libanesi, da parte di poliziotti, agenti dei servizi di sicurezza, soldati e guardie carcerarie.

Si stima che tra gli oltre 8mila detenuti registrati complessivamente in Libano, circa il 30 per cento siano di nazionalità siriana. Di questi, almeno il 20 per cento è in attesa di processo. L’ex capo della Sicurezza generale libanese, il generale Abbas Ibrahim, ora in pensione, l’anno scorso aveva affermato che più del 40 per cento dei detenuti libanesi sono siriani, una cifra che secondo alcuni osservatori era stata “gonfiata” per giustificare la necessità di rimpatriare con urgenza i detenuti siriani.

“Le testimonianze incrociate confermano che le autorità libanesi usano la pratica di tortura per estorcere confessioni, violando in maniera evidente i diritti umani”, scrive Sawma nell’inchiesta dove si denuncia ripetutamente la pessima qualità del cibo distribuito nelle carceri e la carenza di assistenza medica e sanitaria. La maggior parte delle testimonianze proviene dal carcere maschile di Rumie, a nord-est di Beirut, dove i quasi 4mila detenuti vivono letteralmente “ammucchiati” in spazi angusti “senza quasi mai vedere il sole”. Il 79% dei detenuti a Rumie è in attesa di processo, affermano le fonti interpellate dalla giornalista libanese.

Il racconto di Sawma si articola attraverso le storie di Muhammad, Luay, Karim e di altri ancora, tutti pseudonimi di detenuti siriani, giovani e meno giovani, finiti a Rumie e in altre carceri del Libano perché sospettati di essere “terroristi”. L’inquietante repertorio delle torture inflitte a questi individui appare molto simile a quello raccontato da chi è scampato ai supplizi compiuti da decenni nelle carceri politiche della vicina Siria: privazione del sonno e del cibo, percosse con cavi elettrici e bastoni di varia foggia, tensione forzata degli arti, sospensione a testa in giù, colpi sul cranio con il calcio dei fucili e tanto altro ancora.

“Il tutto accompagnato da continui insulti e umiliazioni”, si legge nell’inchiesta. “‘Confesso quello che volete!’, gli dicevo mentre mi torturavano...’Confesso ogni cosa’!”, ha raccontato Muhammad alla giornalista, interpellato tramite i familiari. Accusato di “terrorismo”, Muhammad ha poi apposto la firma sotto una confessione già scritta dai suoi aguzzini e depositata presso il tribunale militare di Beirut.