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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 21 novembre 2023

Gli esponenti del governo Meloni lo hanno detto chiaramente. La norma del pacchetto sicurezza, che introduce la possibilità di trattenere in carcere le donne incinte e con figli piccoli (fino a un anno di età), è il risultato del fenomeno, come ha dichiarato il capo della Lega Matteo Salvini, delle “borseggiatrici Rom che usano bimbi e gravidanza per evitare il carcere e continuare a delinquere”, associando così un’etnia al reato. Ancora una volta, a dettare legge sono i media. Questo accade con tutti i governi, è successo quando c’era il guardasigilli Alfonso Bonafede, all’epoca dell’indignazione pompata dal Massimo Giletti sulle “scarcerazioni” durante l’emergenza Covid, e subito per reazione c’è stato un intervento legislativo altrettanto disumano. Accade ora con l’attuale governo quando “Striscia la notizia” ha creato allarme sociale sulle borseggiatrici rom della metropolitana di Milano che approfitterebbero della attuale legge sotto accusa. In pratica, si fa politica con la cronaca nera.

Il problema della “sicurezza” mette in luce le dinamiche dei rapporti tra l’agenda della politica, dei media e del pubblico. Non è facile individuare quale dei tre attori abbia scelto di prestare attenzione di volta in volta al fenomeno, ma è interessante osservarne le influenze reciproche. Dai discorsi dei politici, ai lanci di agenzia sino ai telegiornali, la sicurezza si definisce come lotta all’immigrazione, al degrado urbano, ora alle “borseggiatrici rom” e in genere al problema della criminalità nelle città. I cittadini assistono e partecipano alle questioni sollevate dalla politica e richiamate dai media che riguardano, di fatto, la qualità della vita e il benessere individuale e collettivo. Infatti, vivere in un contesto sentendosi al sicuro significa poter perpetuare con serenità il proprio stile di vita. Non è più sufficiente registrare il calo dei reati per rendere il cittadino più sicuro, se il quartiere in cui abita è segnato da uno stato di abbandono e di degrado o se vive in un clima di incertezza, paura e angoscia. A questo si aggiunge il ruolo dell’informazione. È il nero della cronaca nei telegiornali e nelle trasmissioni televisive di approfondimento, quelle che raccontano quotidianamente reati di ogni tipo, delitti efferati e storie di vittime e di carnefici. Fatti di cronaca dei quali i media hanno amplificato emozioni e riflessi all’esterno, in una sorta di slalom mediatico che, influenzando la pubblica morbosità, si colloca oltre il recinto o il limite della normalità. E c’è appunto la politica che asseconda.

L’allarme sulle borseggiatrici rom è un fenomeno che esiste, seppur estremamente minoritario. Ma attraverso l’amplificazione dei mass media, si è riusciti a dare impulso attraverso un pacchetto sicurezza che in un solo colpo abbatte una legge, frutto di un lungo percorso - tra riforme e sentenze della Consulta - che ci ha reso un Paese più civile e aderente al dettame della Costituzione italiana.

Ma ritorniamo alle borseggiatrici rom incinte. Dalla criminalizzazione dell’aborto si passa anche alla criminalizzazione della gravidanza. Viene, così, in un solo colpo, abbattuto il diritto per le madri di vivere fuori dalla cella, accedendo a forme alternative o al differimento della pena, se in gravidanza o con bambini e bambine fino a un anno di età. In sostanza diventa una eccezione selettiva e restrittiva. Eppure non è assolutamente vero che evitano automaticamente il carcere. Alle rom la custodia cautelare in carcere viene applicata senza difficoltà perché considerate inaffidabili.

Molti studi evidenziano che negli istituti penitenziari italiani ed europei, la sovrarappresentazione di rom e stranieri risulta ancor più marcata in riferimento al genere femminile e ai minori. Questo fenomeno, confermato dalla netta prevalenza di detenute rom nei reparti nido e nelle carceri minorili, è stato ricondotto a una “discriminazione strutturale” di tali soggetti dovuta sia alle modalità di intervento delle istituzioni penali, sia alla condizione di esclusione nella quale essi si trovano a vivere. A caratterizzare queste persone è soprattutto l’isolamento sociale e culturale di cui sono vittime, le difficoltà di accesso ai servizi pubblici e l’isolamento abitativo. La risposta penale in senso repressivo è quindi il risultato di una cultura che tende a colpevolizzare gli individui per la loro condizione disagiata piuttosto che elaborare progetti politici e sociali che la riducano.

Gli indicatori di cui disponiamo sulla condizione dei rom che entrano nel circuito penale mostrano che essi non solo sono fortemente discriminati rispetto agli italiani, ma ricevono anche un trattamento peggiore di quello solitamente riservato agli stranieri. Vengono condannati più spesso e hanno periodi di detenzione cautelare più lunghi. Un caso particolarmente emblematico riguarda le ragazze rom, che rappresentano la quasi totalità delle detenute degli istituti di pena minorili.

Le giovani rom vengono incarcerate più spesso non perché hanno commesso reati più gravi delle coetanee che invece riescono a uscire dal circuito penale, ma bensì si trovano in un istituto detentivo, nella maggioranza dei casi, perché non hanno una situazione socio- familiare che corrisponda ai requisiti per assegnare una misura diversa dalla carcerazione.

Questo fenomeno è così diffuso che coinvolge spesso anche donne incinte, come nel caso della giovane rom che ha partorito nel carcere di Rebibbia senza assistenza medica. Oppure, peggio ancora, il caso della rom detenuta al carcere di San Vittore. È stata portata in ospedale dopo essersi sentita male, ma il bambino è nato morto. Ma le vere notizie di cronaca enfatizzate dai programmi come “Striscia la notizia”, sono le borseggiatrici. Il programma di Antonio Ricci detta l’agenda politica sulla sicurezza e il governo esegue.