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di Gianfranco Falcone

L’Espresso, 26 aprile 2022

Chi è Marco Puglia?

Marco Puglia è un Magistrato di Sorveglianza napoletano che cerca di fare al meglio questo lavoro, che amo profondamente. È un magistrato che continua, nonostante il passare del tempo, a trovare compassione e motivo per perseguire l’obiettivo costituzionale.

Qual è l’obiettivo costituzionale?

Quello di dare un’opportunità, un’altra chances anche a chi ha sbagliato. Quindi perseguire una finalità comune che è quella di rimarginare le cicatrici, le ferite, che fatti di reato possono generare all’interno del tessuto sociale.

Lei ha anche funzione di coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza?

Sono coordinatore del mio ufficio. In sostanza mi occupo anche delle relazioni con l’esterno, e poi ovviamente delle questioni attinenti allo staff dell’ufficio di Santa Maria Capua Vetere. Appartengo al Tribunale di Sorveglianza di Napoli, che si struttura anche in alcuni altri uffici periferici, che sono gli Uffici di Sorveglianza. Quindi, c’è l’Ufficio di Sorveglianza di Napoli, l’Ufficio di Sorveglianza di Avellino, e l’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Questo, in merito agli istituti penitenziari, si occupa delle carceri di Santa Maria Capua Vetere, di quello di Carinola, e di quello di Arienzo. Poi c’è anche il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere che peraltro è l’unico in Italia.

Quindi Santa Maria Capua Vetere è un carcere comune ma anche carcere militare?

Sono due strutture completamente diverse. Però entrambe esistenti nel territorio della città di Santa Maria Capua Vetere.

Lei si occupa delle istanze dei detenuti che fanno riferimento alle carceri che mi ha nominato. Che cosa fa un Magistrato di Sorveglianza?

Il Magistrato di Sorveglianza è il magistrato che interviene quando la sentenza di condanna diventa definitiva. Quando inizia un altro importante percorso che è quello dell’esecuzione della pena. Percorso che in determinate circostanze può trovare luogo fuori dal carcere, attraverso le misure alternative alla detenzione come l’affidamento in prova, la semilibertà, la detenzione domiciliare. Ma nella maggior parte delle ipotesi il percorso è invece all’interno dell’istituto penitenziario. Quindi, c’è la detenzione in carcere. Ma essere in carcere non significa ovviamente perdere i diritti ma vedere compressi in parte alcuni diritti, come quello della libertà personale. Ci sono comunque degli strumenti come i permessi premio che consentono di riespandere, anche se momentaneamente, la libertà e altri diritti. Il permesso premio viene chiesto al Magistrato di Sorveglianza dal detenuto. È uno strumento importante di sperimentazione all’esterno, perché consente al detenuto di riagganciare quelle dinamiche affettivo-familiari che si sono ovviamente sbiadite, che si sono lacerate a volte a causa della detenzione. Ma consente anche al Magistrato di Sorveglianza di iniziare a conoscere quel detenuto anche all’esterno. Quindi, capire se il percorso sta adeguatamente avanzando o meno.

Quindi il compito del Magistrato di Sorveglianza è quello adempiere al dettato costituzionale che intende la pena come un percorso rieducativo, ed è anche quello di porsi come filtro rispetto a spinte giustizialiste che si presentano nel Paese, spesso o ogni tanto, a seconda di come la si voglia intendere?

Assolutamente sì. Perché la figura del Magistrato di Sorveglianza è una figura che risponde sostanzialmente alla necessità di presidiare l’esecuzione della pena. L’esecuzione della pena non può, non deve assolutamente, abbandonare i canoni della legalità. E non li deve abbandonare perché c’è un baluardo inespugnato, e speriamo inespugnabile, che è l’articolo 27 della Costituzione. Il quale oltre a dirci che la pena non è unica, ma può essere molteplice, si usa proprio il plurale del termine pena, le pene, ci dice anche che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e non possono mai essere determinate da dinamiche che siano inumane, o addirittura degradanti. Questo presidio fa sì che il magistrato debba arginare anche le spinte giustizialiste, che non sono sostanzialmente contemplate dalla nostra costituzione. Perché la pena nella mente dei costituenti non è vendetta, ma è strumento di ricomposizione dei conflitti, e di lavoro perenne su quelle che sono le ferite successive alla commissione di un fatto di reato.

In che cosa consistono queste spinte giustizialiste all’interno del paese? E perché ci sono?

L’espressione più diffusa, e che anche io ho sentito pronunciare come consiglio, è stato letteralmente “Prendiamo la chiave e buttiamola”. Sostanzialmente questa frase così violenta è una frase che dice “Non diamo più nessuna possibilità a queste persone. Lasciamoli marcire negli istituti penitenziari”. Ovviamente c’è dietro una visione della pena intesa come strumento di violenza, di vendetta. È una visione che nega qualsivoglia finalità risocializzante alla pena. E su questo è necessario sensibilizzare la società civile. Questo è un tema a cui tengo particolarmente e sul quale mi impegno. Questa visione che parla di vendetta si sviluppa per quei fatti rispetto ai quali la società civile avverte un turbamento quasi viscerale, che parte dallo stomaco. Quindi, non percorre le strade della ragione.

Molto spesso sento anche parlare di certezza della pena. Ed è anche questo un concetto estremamente evanescente. Perché nel nostro Paese la pena assolutamente è certa. Ma bisogna allo stesso tempo accettare che la pena ha un’accezione proteiforme all’interno del nostro sistema, e quindi non sempre può e deve corrispondere all’idea che noi abbiamo di sanzione rispetto a determinati fatti, e a determinate persone.

Al di là del problema etico, che pure ha una sua valenza imprescindibile, perché non è utile e non è logico buttare via la chiave?

Non è utile e non è assolutamente intelligente come scelta perché, al di là dell’impossibilità normativa implicita nel prendere la chiave e buttarla, è stato dimostrato dai recenti studi di criminologia e da quelli che sono gli studi sui reati in Italia, che coloro che hanno espiato la pena con le misure alternative, quindi fuori dal carcere, hanno un tasso di recidiva assolutamente molto più basso rispetto a quelli che invece hanno espiato la pena in carcere. Quindi se c’è un settore sul quale bisogna investire è quello delle misure alternative. Non è invece strumento del tutto adeguato il carcere. Perché il carcere ci restituisce in molti casi un danno addirittura aggravato. Perché poi, l’assenza di un percorso di risocializzante serio, significa la commissione di nuovi reati. Quindi, la celebrazione di altri processi, l’esistenza di altre vittime, e infine anche una spesa consistente per la reclusione. Quindi, sotto numerosi punti di vista è assolutamente ingiustificabile.

Non è neanche logico e sensato dal punto di vista della difesa sociale. Perché è un detenuto incattivito poi tornerà a danneggiare la società...

Assolutamente.

Le pene alternative sono solo un privilegio per pochi, un privilegio che rimane sulla carta?

No, guardi. Le pene alternative sono numerosissime in Italia, veramente numerosissime. Siamo quasi a una parità tra il numero di detenuti negli istituti penitenziari che si aggira attorno ai 57.000, e il numero dei soggetti a cui sono state concesse le misure alternative, che si aggira anche attorno ai 50.000. Quindi, in effetti potremmo dire che allo stato attuale la stessa qualificazione di alternativo della misura ha perso un po’ di smalto, perché sembra appunto che le misure alternative stiano perdendo questo carattere subordinato rispetto al carcere. Questo sostanzialmente anche perché si sta lavorando su quelli che possono essere dei percorsi esterni, da offrire ai soggetti in esecuzione della pena. È ovvio, e questo è bene chiarirlo, che le misure alternative vengono concesse a chi ha un profilo criminologico, a chi ha una possibilità di recidiva, e in generale una pericolosità molto diversa da chi invece espia la pena in carcere. Quindi, non dobbiamo cadere nell’errore che anche gli associati di stampo mafioso possano in automatico arrivare alla misura alternativa. Assolutamente no. Le strade che conducono ai benefici delle misure alternative, sono strade che cambiano, che si specificano rispetto alle peculiarità della tipologia di reato. Quindi, il percorso che potrebbe compiere l’autore del reato di furto è un percorso diverso da quello che invece è previsto per un eventuale condannato per associazione di stampo mafioso. Il legislatore ha organizzato le norme in misura tale da governare le cose in maniera dettagliata e specifica.

Ero convinto che le pene alternative facessero fatica a decollare. Lei invece mi fornisce un’immagine diversa...

Uno dei problemi è l’esistenza di soggetti che sostanzialmente potrebbero uscire dagli istituti penitenziari con misure alternative ma, che per le ragioni più disparate come ad esempio l’assenza di un riferimento esterno, non riescono a fruirne. Abbiamo una fetta importante di detenuti italiani, con una pena anche inferiore ai tre anni, che non riesce ad accedere alle misure alternative. E questo genera un sovraffollamento, che aimè è diventato sempre più endemico, sempre più consistente.

Perché lei sceglie di diventare magistrato? La sua provenienza da Secondigliano, quartiere difficile di Napoli, ha contribuito a questa scelta?

Io ho deciso di diventare magistrato perché amò la giustizia, nelle sue sfaccettature più piccole, più concrete, più immediate, forse anche banali. Questo sentimento innato mi ha spinto ad esercitare, a svolgere questo ruolo. La mia provenienza da Secondigliano ha giocato un ruolo fondamentale, assolutamente fondamentale. Perché questo quartiere mi ha saputo fornire non soltanto gli esempi più terribili di illegalità, ma anche gli esempi più luminosi di legalità, di resistenza, di impermeabilità, a quelle che sono le lusinghe criminali. Questo ha fatto sì che io abbia imparato ad amare la giustizia, ad amare la legalità, capendo allo stesso tempo che la legalità è un concetto molto più vicino di quanto si possa pensare. È un concetto che parte, si genera nel quotidiano, nella nostra relazione con gli altri. Fino ad arrivare alle norme della Costituzione.

Quali caratteristiche ha il territorio in cui le si occupa dal punto di vista della criminalità? Ci sono degli elementi comuni o ci sono troppe variabili?

Ci sono degli elementi di identità. Consideri che il mio ufficio si occupa di una provincia abbastanza complicata, che è quella di Caserta. Che è stata scenario anche delle principali e più terribili azioni anche del clan dei Casalesi, del cosiddetto clan dei Casalesi. Quindi, stiamo parlando di un territorio che è anche quello della terra dei fuochi. Quindi, di un territorio martoriato dalla criminalità organizzata. Questo si riflette anche all’interno della compagine detentiva degli istituti su cui si esercita il mio ufficio. Perché a Santa Maria abbiamo anche una importante e consistente fetta di detenuti condannati per associazione di stampo mafioso o condannati per reati aggravati dal cosiddetto metodo mafioso. Un’altra tipologia di reati estremamente diffusa in questo territorio, del resto è il controcanto alla diffusione di clan di tipo camorristico, è la tipologia di reati legata agli stupefacenti, quindi al traffico di sostanze stupefacenti e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Che poi si traduce anche in un numero consistente di soggetti detenuti tossicodipendenti che sostanzialmente accedono alla sostanza stupefacente non soltanto come spacciatori ma anche come consumatori, creando poi una duplice problematica di gestione all’interno degli istituti penitenziari.

Lei ha paura? E se ha paura di che cosa ha paura?

Ovviamente ho paura come qualsiasi essere umano. Nel mio lavoro no, non ho paura. Non mi permetto di avere paura. Perché ho un compito che mi impone di essere coraggioso. Impone a me e agli altri colleghi di essere coraggiosi. Impone di essere coraggioso non soltanto quando devo dire no a un’istanza di un detenuto. Ma coraggioso anche quando debbo dire sì a quell’istanza. Perché quel “Sì” rappresenta una spendita da parte mia di fiducia nei confronti di un detenuto, di quella persona ristretta. E quindi mi assumo in quel momento il rischio che quella scommessa importantissima, la scommessa della vita per quella persona, possa fallire. Se mi impelagassi nella paura di scommettere, non sarei probabilmente un magistrato all’altezza del ruolo che devo svolgere.

Quanta solitudine c’è nel vostro lavoro?

Tantissima, tantissima solitudine. Le decisioni del magistrato sono fatte di solitudine, e sono partorite in solitudine. La solitudine c’è anche quando poi quella scelta si concretizza. Ma questo ovviamente è il prezzo da pagare per una funzione che è tanto complicata e tanto necessaria nel nostro sistema.

L’unico intervento previsto dal PNNR in ambito penitenziario è la costruzione di otto nuovi padiglioni da inserire all’interno di istituti penali già esistenti. Come valuta questo intervento ai fini di una riforma della Giustizia, o anche semplicemente dal punto di vista di un esercizio della giustizia penale?

Io ritengo che gli investimenti principali da compiere nell’esecuzione penale siano investimenti che favoriscano una maggiore residualità del carcere. Per cui, nel complesso, la costruzione di padiglioni, tra l’altro uno di questi sarà a Santa Maria, non ritengo sia la scelta maggiormente vicina a questa esigenza. È pur vero allo stesso tempo che viviamo in un momento ormai eccessivamente lungo, di sistematico sovra affollamento carcerario. Probabilmente è per questo che si è deciso l’ampliamento di questi istituti penitenziari. La strada che però io auspicherei sarebbe quella di investire nell’esecuzione penale. Quindi, rendere sostanzialmente più strutturati, più poderosi, gli uffici non soltanto della magistratura ma anche degli altri interlocutori, come ad esempio l’Ufficio Esecuzione Penale Interna, i cosiddetti assistenti sociali. Quindi, rafforzare queste strutture, per farsi che il fuori dal carcere sia maggiormente pronto a governare e custodire l’esecuzione della pena nel migliore dei modi.

Quali provvedimenti saranno presi affinché la costruzione di questi otto padiglioni non cada in mano alla criminalità organizzata? Le faccio questa domanda perché mi risulta che proprio nel carcere in cui lei opera furono pesanti le ingerenze della camorra nella costruzione. Come riferito dal pentito Carmine Schiavone negli anni Novanta fu il clan dei Casalesi a fornire cemento, mezzi e manodopera, controllando l’intera filiera...

Quanto alla questione delle mani della camorra sull’edilizia è ovvio che questo è un ruolo, Un problema che vede la centralità della Procura, e quindi il lavoro dei magistrati che presidiano e sorvegliano affinché non si arrivi al paradosso che è un istituto penitenziario venga costruito, o che la costruzione arricchisca chi poi ci finirà, in un modo nell’altro, all’interno. Questo oggi è un tema molto sentito, anche all’interno della stessa regione Campania. Ci sono tantissime associazioni e tantissimi eventi che vengono a realizzarsi appunto per sensibilizzare anche la società, anche i cittadini a non cedere a questi ricatti. A rimanere vigili, solerti, attenti, affinché non si verifichino quei fatti che appunto Schiavone ha raccontato.

Possiamo pensare a un sistema giuridico che non abbia come perno la detenzione e la privazione della libertà?

Assolutamente sì. L’esperienza penitenziaria italiana ci invita a una riflessione di questo tipo. Quindi, ci invita anche ad abbandonare l’approccio carcero centrico, che ancora è estremamente radicato, nonostante un ampio utilizzo delle misure alternative. È ovvio che pensare oggi a un sistema penitenziario del tutto privo dello strumento carcerario è, allo stato attuale, utopico. Non soltanto perché non avremmo una società pronta a una scelta di questo tipo. Ma anche perché non avremmo forse strumenti esterni al carcere per poter agire nel migliore dei modi. Ma il carcere, così come spesso si presenta nell’esperienza italiana non riesce ad assolvere in maniera sistematica il suo compito. Il carcere spesso diventa luogo di abbandono, di solitudine, luogo fertile per la commissione di nuovi reati. Allora, la strada può essere duplice, o abbandonare progressivamente il carcere e la sua centralità, o rinnovare profondamente il carcere così come oggi lo intendiamo.

A che punto siamo nella costruzione di percorsi che vadano in direzione della giustizia riparativa, che tra l’altro conferisce una diversa dignità alla vittima?

La ministra Cartabia ha più volte manifestato un significativo desiderio di avviare il sistema penale italiano verso lo strumento della giustizia riparativa. Ma allo stato attuale la giustizia riparativa in Italia è immersa in un brodo primordiale. Perché le esperienze italiane sono assolutamente ridottissime a differenza di quanto si possa dire per altri paesi, che hanno adoperato, che adoperano da molto più tempo lo strumento della giustizia riparativa. Questa ha duplice vantaggio. in primo luogo mette al centro anche dell’esecuzione penale la vittima, che invece ora viene sistematicamente dimenticata. Basti pensare che la vittima del reato riesce ad aver voce all’interno del nostro processo soltanto attraverso la costituzione di parte civile. Per cui soltanto chiedendo un risarcimento economico all’interno del processo penale, la vittima ha un proprio microfono all’interno del processo. Allo stesso tempo la giustizia riparativa offre meccanismi di maggiore responsabilizzazione dell’autore del reato, e anche la possibilità di arrivare in maniera molto più spedita e molto più salda alla riconciliazione, non soltanto con la vittima diretta ma anche con il tessuto sociale, che ne è rimasto altrettanto scosso e lacerato.

Sembra che nelle carceri italiane gli episodi di violenza perpetrati dagli agenti della Polizia penitenziaria ai danni dei detenuti non siano così rari. Basti pensare a quello che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000, negli istituti penali di Ferrara, Modena, San Gimignano, Sollicciano, Torino, al Sestante. Che cosa si può fare perché questo non avvenga più?

Si picchia in carcere perché probabilmente c’è anche un problema culturale della Polizia penitenziaria. C’è un problema forse di formazione nella gestione della popolazione detentiva, ed è ovvio che per superare problemi enormi come quello che lei citava, non soltanto è necessario adottare tutte le cautele tecniche affinché gli istituti penitenziari non siano dei mondi chiusi all’esterno, ma siano trasparenti affinché tutti sappiano ciò che accade all’interno. Ma c’è anche la necessità di formare e responsabilizzare la Polizia penitenziaria, rispetto a un percorso tanto delicato. Evitando momenti tanto drammatici e problematici come sono stati quelli che lei mi ha citato. Espressione anche di un’idea di carcere che probabilmente molti pensano essere la più giusta.

Una delle impressioni che si ricavano dagli episodi di violenza che le ho citato è che i reclusi non siano soltanto quelli passati attraverso il processo, ma anche quelli che dovrebbero esercitare una funzione di controllo. Per molti aspetti sembrano entrambi vivere una medesima solitudine, una medesima difficoltà ad attraversare quei luoghi trasformando l’esperienza detentiva in qualcosa di diverso dalla sola pena, intesa come sofferenza.

Certo. Assolutamente. Questo effetto di “prigionizzazione” non appartiene ovviamente soltanto ai detenuti. Appartiene anche agli operatori degli istituti penitenziari, che hanno una relazione con l’istituto, con il carcere, non sempre facile, non sempre lineare. E questo genera anche difficoltà nell’attività lavorativa, genera frustrazione, genera paura. Genera anche fenomeni depressivi importanti. Ed è ovvio che rinnovare il carcere, e dare al carcere il volto più umano possibile gioverebbe non soltanto ai detenuti, ma anche a coloro i quali operano all’interno degli istituti penitenziari.

Nelle zone in cui lei opera sono presenti carceri minorili? Come si opera per fare prevenzione rispetto alla devianza minorile?

Sui territori dei quali mi occupo non ci sono degli istituti minorili. Però in generale è ovvio che la prevenzione inizia assolutamente anche attraverso la scuola, attraverso quella che è la sistematicità della scuola. Lei tenga conto che ci sono dei territori campani in cui ci sono dei tassi di evasione scolastica più alti d’Italia. Questo ce la dice lunga sulla terribile relazione che esiste tra assenza di riferimenti istituzionali come la scuola e criminalità. E allo stesso tempo emerge chiara la necessità di avviare sin dal principio un meccanismo che agganci i bambini, i ragazzini, i soggetti in formazione, e che dia loro una reale alternativa. Poiché, non di rado si tratta di soggetti, di ragazzi che provengono da contesti socio culturali di privazione, di abbandono. Quindi è necessario salvarli in tempo.

Quali sono le difficoltà del Magistrato di Sorveglianza rispetto alla carcerazione femminile?

Nella mia esperienza ciò che emerge nettamente, ed è in qualche modo un po’ il riflesso della tradizione culturale italiana, è che la sottrazione della madre dalla famiglia significa davvero sottrarre il perno attorno al quale ruota l’intera famiglia. Questo lo dico perché in più occasioni ho constatato che le maggiori difficoltà emergono non tanto quando la figura maschile, il padre, viene ad essere recluso, ma emergono quando la madre viene sostanzialmente sottratta dal contesto familiare.

Le difficoltà, per quanto riguarda le scelte del magistrato, ovviamente emergono soprattutto quando si tratta di donne madri. Quindi di donne che hanno fuori dagli istituti penitenziari dei figli, dei bambini, che hanno abbandonato dal momento in cui non è stato più possibile che stessero con loro nell’istituto penitenziario. Tenga conto che la compagine femminile di cui si occupa il mio ufficio è una compagine di alta sicurezza. Quindi, tendenzialmente si tratta di donne condannate per reati di tipo associativo, per associazione di stampo mafioso, quindi condannate al 416 bis. Il problema sorge per queste donne. Perché anche laddove ci siano problemi importanti nella relazione con i figli, spesso figli anche affetti da patologie, sorge poi la necessità di contemperare questa problematica con la caratura criminale spesso molto consistente delle condannate. Quindi, è necessario individuare lo strumento più opportuno affinché non venga ulteriormente leso il diritto del minore, ma allo stesso tempo non vi siano poi meccanismi e possibilità per la commissione di altri reati.

Quali sono i bisogni più sentiti dalle donne detenute? Quelli relativi all’igiene? Alla conservazione della femminilità? Al mantenimento dei rapporti affettivi, non solo con i figli?

Sicuramente c’è una grande attenzione a questi aspetti, ma c’è anche da dire che sotto questo punto di vista nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere c’è una risposta a questi bisogni. Nel senso che nell’istituto penitenziario è stato creato un piccolo laboratorio dove le detenute hanno possibilità di fare dei piccoli trattamenti di bellezza, ovviamente a loro spese. Questo in qualche modo dà loro la possibilità di rimanere in contatto con ciò che erano prima di entrare nell’istituto penitenziario. C’è questo piccolo laboratorio, non è certo una spa o una beauty-farm. È una stanzetta dove le detenute possono prendersi cura le une delle altre.

Pensa che la risoluzione del Consiglio d’Europa del 2018, relativa alla questione femminile nelle carceri europee, abbia fornito o possa fornire strumenti validi alla magistratura? Mi riferisco a quelle norme di soft law che prevedevano anche l’istituzione di un ufficio specifico per la gestione della questione femminile in carcere. Queste indicazioni sono state di qualche utilità o sono rimaste solo sulla carta?

Sono solo sulla carta. Sarebbero di grande utilità. Consideri che in molti istituti italiani c’è una convivenza tra uomini e donne, ovviamente in regimi assolutamente separati. Questo però che cosa significa? Significa una riduzione delle possibilità trattamentali per le detenute. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere su circa 900 persone in detenzione ne conta soltanto meno di 100 di sesso femminile. Questo significa però anche difficoltà a concentrarsi sulle esigenze che una parte così ridotta della popolazione detentiva avanza. Sarebbe interessante individuare una gestione separata, così come per altre minoranze. Pensi anche ai soggetti transessuali che sono all’interno dei penitenziari, e vivono spesso il grande dramma di vedersi collocati nelle sezioni degli istituti penitenziari basandosi su quello che è il sesso di provenienza, e non sul sesso verso il quale sono transitati o stanno transitando.

Rispetto a queste minoranze che hanno compiuto o stanno compiendo la transizione come si comporta il carcere?

In alcuni istituti ci sono delle sezioni a parte dove vengono ospitate le persone transessuali. Però è ovvio che creare delle sezioni ad hoc significa anche in qualche modo generare un involontario meccanismo di segregazione, di limitazione.

Quindi di segregazione nella segregazione?

Esattamente. Perché è ovvio che un soggetto transessuale avrà una possibilità di partecipare alle attività trattamentali, destinate all’intera popolazione detentiva, molto più limitata. Per cui sarebbe necessario anche un intervento sulla normativa, che dia la possibilità, là dove ci sia un percorso medico o un percorso generale serio e definito, di vedere eseguita la pena in un istituto penitenziario, all’interno di sezioni appartenenti al sesso che si è individuato quale sesso di appartenenza.