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di Simona Musco

Il Dubbio, 2 dicembre 2023

Il nome di M. era finito nell’inchiesta sui concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria. Ma lo ha saputo dai giornali, così come ha scoperto della sua archiviazione. Ventuno aprile 2022. L’Università Mediterranea di Reggio Calabria finisce nella bufera. Non è la prima né l’ultima volta per un Ateneo italiano e le accuse sono quasi sempre le stesse: l’esistenza di un presunto sistema che pilota i concorsi. In mezzo ci finiscono nomi di primo piano, dal rettore ai dipendenti, passando per cinque professori e svariati concorsisti, accusati di aver fatto patti per superare le prove a danno di altri. Candidati “scelti su segnalazione” e destinatari di un trattamento di favore sulla base dei desiderata dei docenti.

Una storia vecchia, si dirà. Ma anche quella che segue, purtroppo. M., una giovane e brillantissima dottoranda, si trova lontano da casa sua, lontano dalla Calabria, all’altro capo dell’Italia, in Lombardia. È lì per lavoro e come ogni mattina il 21 aprile del 2022 si sveglia e si mette in moto per andare a scuola: è un’insegnante. Apre Facebook, fa scorrere l’homepage fino a quando sotto i suoi occhi non compare il nome della sua Università. E c’è anche il nome del suo corso di laurea. Apre l’articolo, legge e poi si imbatte nei nomi. Li guarda, conosce tutti. E ad un certo punto arriva il suo. Non un’omonima, quella di cui si parla è proprio lei. Che avrebbe ricevuto in anticipo le domande per poter superare il concorso. M. sa benissimo che tutto questo non è mai accaduto. Ha studiato come una matta per superare quel concorso, ci si è dedicata anima e corpo. Chi le sta intorno lo sa. Il “suo” professore, nei mesi che hanno preceduto l’esame, era quasi irraggiungibile. Per rivolgergli una domanda toccava quasi aspettarlo sotto casa. E invece no, sotto i suoi occhi c’è scritto che anche lei, come tanti altri, sarebbe stata favorita. A M. nessuno ha detto nulla. Non è arrivata una carta, una, dalla procura, nessun ufficiale giudiziario ha bussato alla sua porta, nessuno l’ha convocata, nessuno le ha detto nulla. Ma il suo nome è su tutti i siti. Sui giornali, il giorno dopo. Circola tra i vicini di casa, gli amici le scrivono per chiederle: ma sei proprio tu? E questo perché i giornalisti hanno tutto. Prima di lei, che è una delle persone coinvolte nella storia, una a cui la vita, inevitabilmente, sta per cambiare.

M. è praticamente sotto shock. Tutti - i colleghi, i vicini, i parenti - ora sono autorizzati a sospettare di lei. A pensare che abbia barato. Anche se l’hanno vista piegata sui libri per anni e in lacrime quando gli ostacoli sembravano troppo grossi. Lei non ha nulla in mano, ma i giornali hanno tutto. E pubblicano tutto. Anche se non c’è un’intercettazione che la riguardi, nulla. La sua storia accademica cade solo nel momento giusto e dunque eccola nel calderone. Per leggere qualcosa di se stessa deve chiedere aiuto agli amici giornalisti. Che hanno la libertà di pubblicare il suo nome, alla faccia della presunzione di innocenza e di quella legge Cartabia “che avrebbe ammazzato il giornalismo”, e le girano le carte che riguardano lei, più che loro, consentendole di apprendere cosa le stanno contestando. Passano i mesi, la storia smette di appassionare, l’Ateneo scende nelle classifiche e lei continua a lavorare, come prima. Solo c’è questa grande ombra che l’accompagna e il timore che tutti i suoi sacrifici possano sembrare una truffa. Non le danno alcuna notizia, nessuno le chiede di spiegare le sue ragioni, le arriva solo una comunicazione, a febbraio, di proroga delle indagini. Il primo atto ufficiale della sua vicenda.

Giovedì i giornali hanno rispolverato la faccenda: le indagini sono chiuse e dunque tocca riscrivere dei nomi. M. clicca di nuovo su un link a caso gli articoli sono uguali ovunque, cioè delle veline - e il suo nome non c’è. E non c’è nemmeno quello del docente che l’avrebbe aiutata. Nessuno, però, lo sa, tranne chi stava aspettando l’ennesimo elenco per cercarla tra gli altri. Perché non c’è nulla che la riabiliti. Nulla che spieghi che ha subito un’inutile gogna nonostante sia pulita come un bambino. L’unica cosa che ha è la sensazione di sollievo per essere uscita da un incubo, quello che avrebbe potuto portarla a doversi difendere per aver realizzato il suo sogno, conseguire un dottorato. M., da Milano, sorride felice. Manda una foto agli amici in cui il suo volto è sì pieno di contentezza, ma anche di amarezza. Nessuno sa che M. è innocente, che ora anche la procura lo sa, tutti hanno ancora modo di sospettare che non lo sia. La sua dignità sacrificata non fa più notizia.