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di Alessandra Di Pietro

Gli Altri, 17 giugno 2011

Una volta alla settimana il monaco zen Dario Doshin Girolami entra nella casa di detenzione di Rebibbia a Roma per meditare con un gruppo di 24 detenuti di cui la metà ergastolani. Finito con loro, comincia a farlo con trenta guardie carcerarie. Il monaco ha importato l’esperienza di trovare il silenzio interiore dietro le sbarre dal San Francisco Zen Center - il monastero dove è stato ordinato - e che, da 40 anni, collabora con il carcere di San Quintino (California).
I risultati americani sono straordinari: diminuzione di stress e rabbia, calo dei suicidi, meno 20% di recidivi. In Italia sarà il dipartimento di Psicologia della Sapienza a monitorare gli effetti della pratica misurando con dei questionari il livello di ansia, aggressività, umore, consapevolezza dei detenuti prima e dopo il training. Questo è il secondo anno che la meditazione apre spazi virtuali a Rebibbia, dunque lo studio è già a buon punto, se ne può parlare. Incontro Doshin all’Arco Zen, il suo Centro di meditazione in piazza Dante, a Roma: ha 44 anni, è piccolo di statura, possiede un’aria solida, è di aspetto tosto e gentile insieme, gli occhi neri sono profondissimi. Sul retro della sala dove si medita c’è un piccolo giardino zen che sta sotto le finestre di un palazzo: alcuni distrattamente ci buttano
le cicche, altri incuriositi vengono giù a vedere, fermandosi magari a praticare. Scegliamo di sederci nella stanza d’ingresso, io su una sedia, lui su un’altra, separati da un piccolo tavolino. Cominciamo dalla carta d’identità: “Sono italiano, nato a Roma, ho cominciato a meditare per gioco a 6 anni. Il mio pediatra praticava yoga ed era agopuntore, mi regalava i libri di Thich Nhat Hanh (monaco buddista vietnamita), erano per me una lettura interessante”. Sono gli anni 70. Cresce in una famiglia libertaria? Mio padre era un regista della commedia italiana (il famoso e prolifico Marino Girolami ndr), mia madre una costumista (Silvana Scandariato), giocavo sui set con Tognazzi, Mastroianni, Manfredi.


È stato santo fin da subito?


Ma no, giocavano a pallone, andavo al liceo, però la meditazione era sempre con me. Finito il liceo, mi iscrissi a Filosofie orientali. li ho conosciuto il professore Corrado Pensa, (psicoanalista, maestro della meditazione Vipassana, tra le più note ndr). Ho iniziato a meditare e viaggiare in Oriente e negli Stati Uniti. Quando sono arrivato al San Francisco Zen Center ho trovato una maestra, l’ho seguita, ho preso i voti. E lì incontra anche la meditazione per i carcerati. Il centro ha una lunga tradizione di collaborazione con San Quentin. Io ho il passaporto italiano e non potevo entrare. Però seguivo il corso di formazione per diventare operatore nelle galere e insegnavo agli ex detenuti. E sente che questa è una sua strada. Meditare con i detenuti è educativo per me.


Perché?


Basta la deviazione dello spessore di un capello per separare cielo e terra. Incontrare di persona pluriomicidi, responsabili di efferati delitti, meditare con loro, mi permette di comprendere che non si tratta di mostri ma di esseri umani, non diversi da noi. In fondo tutti, prima o poi, abbiamo concepito pensieri violenti. Certo, poi non gli abbiamo dato corso, grazie all’auto controllo, all’educazione, alla fede, alla fortuna. C’è chi non ha avuto le nostre possibilità. E il velo che ci separa è davvero sottile. Nella meditazione insieme ritroviamo una superiorità morale e una dimensione di umanità.


È stato difficile cominciare?


Sì. Dal 2000 ho iniziato a girare per le carceri ma incontravo la resistenza delle direzioni e dei cappellani. Anche se io presento la meditazione come tecnica di riduzione dello stress sono pur sempre un monaco. Avevano una sola motivazione concreta. La popolazione carceraria è soprattutto povera e straniera. I nordafricani hanno una pratica religiosa intensa e non sono interessati. Lei non ha desistito. Mai. Un giorno parlo del progetto con Antonino Raffone, un mio studente di meditazione e professore di neuroscienza alla Sapienza. Lui è entusiasta e coinvolge subito la sua collega Serena Mastroberardino che lavora già con i detenuti. Ed è fatta. Il direttore del carcere è subito disponibile. Viene formato un gruppo tra gli ergastolani con problemi di aggressività, gente che deve fare pace con la condanna a vita. A loro, per primi, propongo il corso.


L’impatto è stato duro?


Appena entrato uno di loro mi ha riconosciuto monaco zen e si è inchinato. Un altro mi ha rimproverato perché avevo i capelli non perfettamente rasati. La prima domanda è stata: è vero che posso levitare? Abbiamo riso ed è stato più semplice del previsto. Erano 24, la metà si è iscritta. Alla fine della prima lezione uno di loro ha detto: ahó, è meglio della droga.


In che cosa consiste la sua meditazione?


Essere consapevole nel presente, seguendo il respiro, senza modificarlo. Ci dà un’immagine per figurarci che cosa accade. Meditiamo nella sezione adibita a scuola dentro la più grande delle aule che è pur sempre la metà di una stanza normale. Stiamo seduti su seggiole che - non so perché - sono piccole come per i bambini delle elementari. In media siamo 14, ci sistemiamo in cerchio, stretti l’uno accanto all’altro: uomini giovani, anziani, grossi, tatuati, italiani, qualche straniero. Per cominciare serve chiudere gli occhi ed è già un passo enorme: un carcerato non lo fa mai. Qualcuno ha rinunciato perché non ce la faceva... Poi pian piano arriva il silenzio interiore.


Quello esteriore?


Non c’è mai. Sbattono le porte, i detenuti gridano, i tossicodipendenti urlano per le crisi di astinenza. Però superiamo il rumore.


E gli altri detenuti come reagiscono?


Sberleffi, pernacchie, ma chi medita difende la sua pratica.


Gli studenti dello scorso anno sono tornati?


Qualcuno. Poi abbiamo allargato a tutti i detenuti e gli iscritti ora sono 24. Due trentenni condannati a dieci anni di carcere hanno deciso di trasformare questo loro tempo in una sorta di vita monastica: meditano insieme tre volte al giorno per un’ora e fanno tai chi. Un altro si è avvicinato al buddismo. Altri si limitano ad usarlo come strumento di riduzione dello stress. Però quasi tutti hanno eliminato gli psicofarmaci per dormire.


Lei conosce la storia giudiziaria dei suoi studenti?


Potrei ma non voglio sapere. Non sono giudice, avvocato o poliziotto. Preferisco incontrarli per quello che sono ora senza pregiudizio. Quanto è impegnativo per lei chiudersi in una stanza con pluriomicidi, stupratori rapinatori e meditare. Appena si apre la porta considero di entrare nella terra del Buddha dove tutto è luce e ogni passo è un respiro di pace: funziona.


Lei medita anche con le guardie?


Sì, le guardie sanno quali detenuti partecipano ai corsi, non viceversa.


Con loro come succede?


Meditiamo nella caserma. Però sono poche e molto stressate dai turni, spesso non ci sono, oppure non possono assentarsi in orario di lavoro per meditare. Hanno decisamente meno tempo a disposizione dei detenuti. Allora ho fatto dei cd con la mia voce e praticano a casa. Funziona anche per loro.


Lei è pagato


No.


Vuole continuare?


Assolutamente. Vorrei portarlo in ogni carcere. Anche nella sezione femminile. Una mia allieva di origine rumena è pronta se non vogliono che a farlo sia un maschio, sarebbe bellissimo, non crede?