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di Paolo Biondani e Andrea Tornago

 

L'Espresso, 9 febbraio 2020

 

Centinaia di chili di stupefacenti rubati a Milano e a Padova nei caveau blindati dei laboratori di tossicologia. Colpi da professionisti rimasti impuniti da anni. E lo strano "suicidio" di un chimico che sapeva troppo. Eroina, cocaina, hashish con il marchio dello Stato. Carichi di droga imponenti, per milioni di euro, che vengono sottratti dai depositi blindati delle autorità pubbliche. Senza forzare porte o finestre, senza lasciare impronte e nessun'altra traccia.

Colpi spettacolari, con bottini ricchissimi, rimasti totalmente impuniti. Con una scia di interrogativi irrisolti da anni. A cui ora si aggiungono nuovi misteri. Atti giudiziari scomparsi dai tribunali. Lettere anonime che insinuano complicità eccellenti. E una morte collegata, molto strana. Archiviata come un suicidio anomalo. Un giallo che i familiari ora chiedono di riaprire. Per svelare i retroscena di quella tragedia. E cercare finalmente di smascherare una banda criminale potente e sfrontata, capace di impadronirsi di decine di chili di stupefacenti sequestrati dalle forze di polizia. Una gang finora intoccabile. La banda della droga di Stato.

Ci sono segreti che pesano più delle chiavi di una città. Possono aprire le porte del potere o chiudere carriere importanti. A Padova c'è un segreto che resiste da troppi anni. Riguarda un furto clamoroso, scoperto la mattina del 17 marzo 2004 nei laboratori di tossicologia forense della prestigiosa università cittadina. In quelle stanze blindate dell'istituto di medicina legale vengono conservati gli stupefacenti sequestrati da tutte le forze di polizia. Solo tecnici fidati sono autorizzati a prelevarne piccoli campioni, per il tempo necessario alle analisi: i risultati diventano prove nei processi contro spacciatori e narcotrafficanti. Poi la droga va trasferita nei caveau dei tribunali, tra i corpi di reato. E alla fine viene incenerita. Quel giorno a Padova, invece, spariscono almeno dieci carichi di stupefacenti, sequestrati nei mesi precedenti da varie forze di polizia, ma ancora stipati in "pacchi e scatoloni" nei laboratori statali. Un documento consegnato il 29 marzo dall'università al magistrato di turno elenca con precisione il bottino: 49 chili di eroina, 5,8 di cocaina, 1,8 di hashish, 64 grammi di marijuana. Più di mezzo quintale di stupefacenti. Per un valore al dettaglio di almeno cinque milioni di euro, secondo i dati di quell'anno del dipartimento nazionale antidroga.

Le indagini della squadra mobile di Padova e del pm Emma Ferrero si scontrano con una specie di enigma della camera chiusa. Il caveau sotterraneo della medicina legale è protetto da porte blindate. E da un sistema d'allarme. Che risulta funzionante e regolarmente attivato fin dalla sera precedente. In tutto l'istituto, diretto da un luminare, il professor Santo Davide Ferrara, non si trova alcun segno di effrazione. E non ci sono telecamere che inquadrino le vie di fuga dei ladri. Che dovevano essere molto ben informati.

Sapevano degli eccezionali quantitativi di droga accumulati in quei mesi nei laboratori di tossicologia. Conoscevano gli orari di attivazione e disattivazione dell'allarme, che veniva staccato di giorno, nelle ore di lavoro, e reinserito la sera. E possedevano anche altre notizie preziose. Nelle ore di servizio, i tecnici erano abituati a tenere accostata la porta blindata, senza chiuderla a chiave. E proprio la sera del 16 marzo era in programma un affollato seminario universitario, destinato a richiamare quasi tutto il personale interno, svuotando così il sotterraneo con la droga.

All'inizio l'indagine si concentra su un singolare cambio di serratura della porta del caveau, avvenuto la settimana prima del furto: l'ipotesi è che un complice interno abbia fornito le chiavi alla banda. Ma la pista non porta lontano: con l'allarme disinserito e la porta accostata, bastava una tessera di plastica per far scattare la serratura. Quindi poteva farlo anche un estraneo, entrato approfittando del seminario. E così, nonostante il bottino milionario, il colpo della droga di Stato resta senza colpevoli. Da 15 anni. Senza alcun testimone, senza alcuna soffiata.

Nei palazzi cittadini nessuno ha voglia di parlarne. Perfino i vertici della procura, dopo aver archiviato l'indagine, negano per anni la consultazione degli atti giudiziari a docenti e giornalisti, per "ragioni di riservatezza". E all'università non c'è più nulla: oggi l'ateneo "non possiede atti che possano ricostruire le circostanze del fatto", spiegano imbarazzate all'Espresso, "dopo un'attenta ricerca in archivio", fonti vicine all'attuale rettore Rosario Rizzuto, in carica dal 2015. A Padova però c'è qualcuno che non può dimenticare. E ora chiede di riaprire le indagini su quel colpo così perfetto. E su una morte collegata.

Per capire quei mesi drammatici del 2004 occorre spostarsi all'Arcella, il quartiere dietro la stazione ferroviaria. Qui vive la famiglia di Luciano Tedeschi, ex militare, tossicologo di fama internazionale: all'epoca del maxi-furto è il capo del laboratorio. All'alba del 22 aprile 2004, poco più di un mese dopo, una vicina di casa scopre che è precipitato nel cortile del suo palazzo dopo un volo di tre piani dal balcone di casa. La polizia passa al setaccio tutto, ma non trova alcun indizio, nemmeno un biglietto d'addio ai familiari. Il caso viene archiviato come suicidio, ma è tuttora inspiegabile. Chi gli stava vicino ricorda solo il grande dolore che provava per lo scandalo che stava screditando "il suo laboratorio", che aveva contribuito a creare quando ancora era un chimico ufficiale dell'aeronautica. Il giorno successivo sarebbe dovuto partire con una collega della medicina legale: un pm antimafia di Venezia li aveva incaricati delle analisi dopo un grosso sequestro di cocaina. Nonostante il clamore del furto, la stima dei magistrati restava immutata.

Mentre preparava la trasferta, però, il tossicologo era turbato da fatti a lui estranei. Pochi giorni prima un maresciallo dell'esercito era stato accusato di aver fatto sparire un miliardo di vecchie lire. "Non è che possono farmi comparire dei soldi sul conto corrente?", aveva chiesto il chimico alla moglie, con angoscia, temendo di essere incastrato per colpe altrui. Era solo una delle tante preoccupazioni di quelle settimane passate a stilare l'elenco dei chili di droga sparita. E a sottolineare disperatamente, nelle relazioni depositate in procura, "l'inderogabile, urgente necessità di provvedere alla restituzione" all'ufficio corpi di reato degli altri carichi di stupefacenti ancora presenti nel laboratorio svaligiato.

A casa, negli ultimi giorni, sembrava aver fretta di sistemare pratiche. Tutti lo ricordano come un uomo onesto, che all'improvviso appariva terrorizzato. Di cosa aveva paura? Resta un mistero. L'unico dato certo è che il responsabile del laboratorio dell'antidroga cade dal balcone tra le 6,30 e le 7 del mattino, senza nessun testimone. Con una mossa anomala: si sarebbe gettato nel vuoto di schiena. "È una modalità non impossibile, ma sicuramente inusuale per quel tipo di suicidio", spiega oggi all'Espresso un autorevole medico legale, consulente di diversi tribunali: "Di certo non è la più frequente. E in questo caso specifico, la definirei un fatto strano". Dubbi che si sarebbero potuti fugare con un'accurata autopsia. Il caso viene affidato a un collega della vittima, Massimo Montisci, poi diventato professore ordinario e tuttora direttore dell'istituto. L'esperto considera più che sufficienti le analisi chimiche e un esame esterno del corpo. E non ravvisa "elementi di carattere medico-legale che contrastino con una dinamica suicidaria".

La mancanza di autopsia oggi non aiuta a rasserenare i familiari della vittima. Anche perché si aggiunge a molte altre anomalie. "Le pagine del fascicolo giudiziario sul suicidio di mio padre non sono numerate e nel faldone mancano atti", conferma all'Espresso una delle figlie del tossicologo, Lucia Tedeschi, avvocata penalista a Padova. Che precisa: "La polizia aveva chiesto e ottenuto un accertamento sul suo telefono, per controllare le ultime chiamate. C'è l'autorizzazione del pm e persino la fattura del gestore telefonico che ha fornito i dati. Ma i tabulati di mio padre non li abbiamo trovati".

Dopo una serie di richieste formali, la famiglia Tedeschi ha ottenuto dalla Procura tutti gli incartamenti. E ha scoperto che il fascicolo sul presunto suicidio è pieno di riferimenti al maxi-furto. Non solo. Risultano sparite carte giudiziarie anche dai faldoni dell'indagine sul colpo della droga di Stato. L'allora capo della squadra mobile, Alessandro Giuliano (figlio di Boris, l'eroico poliziotto ucciso dalla mafia nel 1979 a Palermo), aveva firmato un rapporto su quattro precedenti furti di cocaina, scoperti tra il 2000 e il 2003. Ma le informative allegate alla relazione di Giuliano sono scomparse.

Nella richiesta di riaprire le indagini sul furto e sul presunto suicidio, la famiglia fa anche notare che l'istituto di medicina legale, oggi, non può considerarsi insospettabile. Lo stesso professor Montisci è infatti indagato dalla Procura di Padova per autopsie e analisi ritenute false, anche per favorire imprenditori con il vizio della cocaina. Accuse recenti, respinte con forza dall'interessato, non collegabili al furto di 15 anni fa, che però spingono la famiglia Tedeschi a invocare nuove indagini. "Gli ultimi scandali ci hanno fatto venire in mente tante cose", racconta la vedova del tossicologo, Osvalda Minocchia, senza fornire dettagli. "Mio marito aveva seri dubbi che le responsabilità del furto potessero essere circoscritte all'interno dell'istituto. Era sconvolto per questo. Vorrei capire cosa è successo veramente e se i suoi timori, che mi confidò allora, erano fondati".

L'esposto dei familiari suggerisce piste precise, che vengono tenute riservate. Anche perché tornare a indagare su quel furto significa scandagliare gli ultimi vent'anni di misteri veneti. Lo scrittore padovano Massimo Carlotto si è ispirato a questa vicenda per un romanzo, "L'amore del bandito", dove si ipotizza un furto su commissione, con la copertura di apparati dello Stato. Un'altra suggestiva ipotesi mette insieme l'azione clamorosa, il bottino milionario, la scelta di derubare e sfidare lo Stato, la probabile esistenza di complici insospettabili: ci sono tutti i crismi di tanti colpi spettacolari che resero famosa la mala del Brenta, la prima banda veneta condannata per mafia, fondata dal boss Felice Maniero, che però in quel periodo era da tempo agli arresti. Le cronache dei giornali segnalano anche un'altra pista, giudiziaria: per i carichi di droga non ancora analizzati, il furto cancella le prove.

All'epoca una lettera anonima chiamò in causa addirittura uno degli ufficiali dei carabinieri che negli stessi mesi venivano colpiti dall'accusa-choc di aver organizzato traffici internazionali di droga di Stato. Cocaina acquistata all'estero da militari infiltrati del Ros, importata in Italia, addirittura raffinata in laboratori clandestini e poi venduta a spacciatori che a quel punto venivano arrestati. Un processo chiuso in Cassazione, dopo le condanne in primo e secondo grado, con un proscioglimento generale. Con una motivazione a suo modo stupefacente: la sentenza finale conferma che erano quei militari a gestire l'intero traffico di droga, ma solo per fare gli arresti, non per arricchirsi; e visto che i pochi spacciatori sfuggiti alla cattura hanno potuto smerciare solo "esigue quantità" di quella cocaina statale, anche le precedenti importazioni di grossi carichi vanno riqualificate come "reati di tenue entità", ormai cancellati dalla prescrizione. L'anonimo fu spedito ai familiari di Tedeschi, che lo consegnarono personalmente a un alto magistrato della Procura. Ma anche questo documento è sparito.

Una lettera anonima, beninteso, non vale niente in un processo. E il suo contenuto appare inverosimile: i militari erano sotto inchiesta a Brescia fin dal 1997 e non sono mai stati accusati di rubare droga in Italia. La lettera potrebbe invece nascondere un depistaggio proprio contro i carabinieri, per proteggere i veri ladri. Anche per questo sarebbe interessante scoprire chi sia l'anonimo, se la lettera non fosse scomparsa dagli atti del procedimento.

Un'altra anomalia vistosa è l'assenza di indagini coordinate sui possibili legami con altri maxi-furti di droga statale commessi negli stessi anni. Negli atti di Padova, in particolare, non c'è alcun riferimento a un altro raid clamoroso, realizzato nel 2006 a Milano. Dove oggi i magistrati confermano di non essere mai stati informati della precedente razzia in Veneto. Anche il colpo di Milano è spettacolare ed è tuttora impunito. Il 27 giugno 2006 almeno quattro banditi a volto scoperto, senza armi, entrano nel deposito blindato dell'istituto di medicina legale, in via Mangiagalli, dove rubano almeno 100 chili di cocaina. Quel quintale di droga, all'epoca, vale sul mercato circa 12 milioni. Un blitz da "veri professionisti del crimine", come li definiscono i magistrati, compiuto in meno di 15 minuti.

I banditi entrano dal portone principale, mescolandosi a studenti e dipendenti che affollano l'istituto universitario in quel giorno di esami. Tre sono vestiti di nero, uno con jeans e maglietta. Hanno occhiali scuri e cappellino, parlano italiano senza inflessioni, solo uno ha un accento strano, forse slavo. Il caveau del dipartimento di tossicologia forense è al primo piano. I banditi salgono indisturbati e suonano il videocitofono: mostrano un falso tesserino dei carabinieri e si presentano come militari in borghese, mandati a ritirare un campione di droga per esigenze investigative. All'interno, bloccano una dipendente e la costringono ad aprire il cancello d'acciaio che protegge il caveau e a digitare la combinazione della porta blindata, che pesa otto tonnellate.

Quindi sequestrano sei ostaggi, medici e tecnici di laboratorio: quattro uomini e due donne, terrorizzati, che vengono rinchiusi nella stanza blindata con la bocca tappata e le mani legate dietro la schiena con fascette di plastica. I banditi sanno cosa cercare: aprono diversi scatoloni, finché trovano i 100 chili di cocaina, con cui riempiono i loro borsoni. Pochi minuti dopo, se vanno a piedi, con calma. All'uscita, secondo alcuni testimoni, sono attesi da un complice, travestito da carabiniere. I pm Alberto Nobili e Gaetano Ruta aprono un'inchiesta per rapina, sequestro di persona, traffico di droga. E scoprono che le telecamere interne esistono, ma non funzionano: in quei giorni non registrano le immagini. I banditi non lasciano nessuna impronta, nessun'altra traccia. A Milano magistrati e carabinieri indagano a fondo sull'ipotesi di un basista interno, ma senza risultati.

Nella conferenza stampa dopo il raid, nessuno menziona il maxi-furto di Padova, nonostante l'identità degli obiettivi: le due indagini restano scollegate, affidate a procure e forze di polizia diverse. A Milano gli inquirenti citano solo i precedenti che conoscono: altri furti organizzati tra il 1999 e il 2000 a Roma, nel caveau del tribunale, grazie a complici poi arrestati.

Da Brescia a Sassari, Messina e altre città, è sempre l'ufficio corpi di reato a diventare bersaglio dei ladri. E nei casi risolti, le indagini portano all'arresto di almeno un dipendente interno. Come nei più ricchi furti di droga commessi all'estero, da Parigi a Bogotà, dal Messico al Guatemala, dove vengono accusati poliziotti, militari o altri basisti. A Milano e Padova invece tutti i banditi restano impuniti, liberi di arricchirsi con 17 milioni in eroina e cocaina rubata allo Stato.