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di Paola Balducci

Il Dubbio, 2 luglio 2024

Il carcere produce più carcere. Si dovrebbe partire da questo assunto fondamentale per comprendere l’attuale situazione penitenziaria italiana, vittima di un sovraffollamento esasperato, di un’emergenza suicidi che non appare arrestarsi (siamo a quota 49 nei primi 6 mesi del nuovo anno) e della forte instabilità data dal “terremoto penitenziario” a cui continuiamo ad assistere. Il sovraffollamento carcerario riduce l’attenzione degli operatori ai singoli detenuti, che si ritrovano in condizioni di abbandono e di “ozio” forzato, non potendo disporre di concreti ed efficaci programmi rieducativi. Il rischio, che in verità si sta tramutando in realtà, è quello di avvitarsi in un circuito in cui i detenuti incorrono continuamente in nuove sanzioni e, a volte, in reati, che portano solo a far aumentare il periodo di detenzione.

La situazione della realtà carceraria risulta ben evidente anche dai dati riguardanti la crescita progressiva dei numeri dell’esecuzione penale interna ed esterna: le uscite al fine di fruire di una misura alternativa alla detenzione, non riescono a far fronte alle numerosissime entrate. Eppure, secondo la legge, con le dovute eccezioni, per pene inferiori a 4 anni dovrebbe essere concesso di poter scontare la pena all’esterno. Tuttavia violazioni delle prescrizioni, carenza di domicili idonei, un numero troppo esiguo di uffici di esecuzione penale esterna, incapaci di seguire adeguatamente il percorso esterno di un condannato, mancanza di attività rieducative per coloro che scontano una pena superiore ai due anni, sono tutti elementi che non permettono al sistema dell’esecuzione penale di rispettare il dettato costituzionale che mira alla rieducazione del condannato.

Un percorso rieducativo che dovrebbe permettere alla stessa Magistratura di Sorveglianza di conoscere personalmente il detenuto, consapevole che, a volte, una sanzione disciplinare non sia indice del fatto che non si possa essere idonei alla vita all’esterno. E poi vi è il tema della pericolosità sociale, della situazione degli autori di reato affetti da patologie psichiche, dello scarso numero di Rems presenti sul territorio, che porta le carceri a dover accogliere dei detenuti non in grado di gestire e di curare, che sentono lo sconforto dell’abbandono e della solitudine e che purtroppo molto spesso si abbandonano a gesti estremi.

Ecco, allora, come risulta evidente che il mondo carcerario non possa essere ridotto a semplici dati numerici, a semplici statistiche. Il carcere è fatto di persone, di mondi che si incontrano e si scontrano, che devono aprirsi verso l’esterno, certamente seguendo le prescrizioni normative, ma provando anche ad immaginarne di nuove.

In una situazione simile, infatti, si dovrebbe avere il coraggio di implementare riforme concrete, come fatto con le cause di non punibilità per particolare tenuità del fatto, la sospensione del processo con messa alla prova, le pene sostitutive delle pene detentive brevi, e affrontare senza timore anche temi spesso considerati scomodi, quali ad esempio l’amnistia e l’indulto.

Non si dovrebbe incorrere nell’errore di considerarli come atti legislativi volti a far uscire in massa i detenuti dal carcere o provvedimenti di indiscriminata clemenza. In realtà, l’indulto potrebbe essere un provvedimento estremamente rapido per ridurre la popolazione carceraria, limitandolo ai reati meno gravi e affiancandolo a programmi di recupero sociale tramite lavori all’esterno.

Non dunque un “liberi tutti”, come gli oppositori all’applicazione di tali istituti potrebbero obiettare, bensì dei provvedimenti calibrati, studiati, attentamente regolati, al fine di permettere al sistema carcerario italiano di svolgere la vera funzione che la Carta Costituzionale gli ha brillantemente attribuito: non unicamente di afflizione e pena, ma di rieducazione e recupero sociale, che in un contesto complicato come quello delle carceri italiane, sembra oramai essere perduto e compresso come gli 60.000 detenuti che lo popolano.