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di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi

La Repubblica, 18 gennaio 2024

A Giugliano, in provincia di Napoli, sabato 13 gennaio è morta una bambina di sei anni. Si chiamava Michelle e viveva, insieme alla sua famiglia, nel campo rom di via Carrafiello. Da quanto riportano le cronache locali, Michelle stava percorrendo un tratto di strada all’interno del campo quando ha toccato un cavo elettrico scoperto e si è accasciata a terra, folgorata da una scossa. Abbiamo imparato a chiamare “innocenti assoluti” quei bambini, dai 0 ai 3 anni d’età, che vivono nelle carceri italiane insieme alle loro madri. Ecco, la stessa espressione - pur se applicata a contesti diversi - viene in mente oggi, se ci si sofferma sulle decine e decine di minori che vivono in condizioni terribilmente precarie all’interno dei campi.

Innocente assoluta era Michelle che si preparava per andare a scuola e cercava dell’acqua potabile, innocenti erano i tanti bambini morti, vittime dei roghi in questi anni, all’interno di case pericolanti nei diversi campi che le grandi città hanno allestito per loro.

Pochissime sono state le informazioni su questa morte, quasi che simili incidenti fossero né più né meno tristi fatalità, frutto di un contesto irreparabilmente degradato. Eppure, quel contesto è stato progettato per far vivere alcune persone, di cui quasi la metà minori, il più lontano possibile dai centri urbani e dai servizi essenziali. È stato progettato e abbandonato in quel degrado che genera, per forza di cose, fragilità e paura.

“Le comunità rom di Giugliano - scrive Emma Ferulano su Napoli Monitor - sono presenti sul territorio da circa trenta anni, con almeno due generazioni di nati sul suolo italiano. Molti hanno ottenuto il permesso di soggiorno e la cittadinanza, ma lo status giuridico, sebbene in gran parte regolare, è nettamente in contraddizione con la totale precarietà abitativa, lavorativa, sociale in cui vivono centinaia di persone”.

L’identità di un luogo, così come l’identità della persona, si costruisce nella relazione. Le comunità di origine serba di Giugliano, così come quelle bosniache e, più in generale, tutte quelle dell’ex Jugoslavia da anni in Italia hanno creato rapporti, costruito legami, immaginato futuri possibili per i loro figli nel territorio che ormai è diventato anche la loro casa. Quel capitale umano sta lentamente scomparendo a seguito di quella che viene chiamata una lenta “diaspora” verso altri luoghi. Fare memoria significa anche impedire che altre generazioni di tali comunità siano inghiottite da un’ennesima migrazione silenziosa, fare memoria significa impedire che qualcuno muoia come è morta Michelle, un livido sabato di gennaio