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di Gianluca Nicoletti

La Stampa, 26 novembre 2023

Umberto Re a 78 anni si è sparato un colpo in testa perché bullizzato. È morto dopo 24 ore di agonia all’ospedale di Agrigento, questa è stata la sua risposta ai concittadini che lo avevano violentemente attaccato e deriso sui social, perché il Festival da lui organizzato aveva avuto un esordio non proprio felice. La foto del teatro Pirandello, tragicamente vuoto il giorno della prima, era diventato un meme per lanciare sfottò crudeli contro l’imprenditore, accusato di aver speso troppo in quel fallimento.

Ora negli stessi social è iniziato il pianto del coccodrillo, c’è chi chiede il lutto cittadino ed è tutta una gara nel ricordarlo come persona cortese e intellettualmente onesta. Gli stessi che si sono così divertiti a sfotterlo, per non essere stato all’altezza del progetto culturale che aveva sposato con passione, forse non avevano calcolato l’effetto della tortura mediatica su una persona all’antica, abituata al confronto su terreni meno subdoli di quelli in cui amano destreggiarsi i leoni da tastiera. Per qualcuno potrebbe essersi anche posto come un concorrente la cui reputazione andava infangata, ora probabilmente tutti si rendono conto che la sua morte non gioverà alla reputazione dell’imprenditoria culturale di Agrigento, soprattutto dopo che la Città dei Templi il 31 marzo è stata proclamata Capitale italiana della Cultura 2025.

Umberto Re era tra le persone che avevano allestito la settimana del cinema sportivo chiamata “Paladino d’oro-Sport film festival”, che nelle 42 edizioni precedenti si svolgeva a Palermo. Entrare nello specifico delle frizioni che covano dietro a questa vicenda è del tutto secondario, l’esito di un suicidio vanifica qualsiasi retroscena che una banale disputa cittadina potrebbe scatenare.

La famiglia dell’imprenditore ha lanciato un appello alla città, in cui c’è una frase a cui si dovrebbe dare una portata ben più estesa: “Si apra una riflessione perché mai più ci si possa trovare davanti alla tempesta senza vestiti”. Mi sembra una perfetta sintesi di quello che ognuno dovrebbe chiedersi prima di digitare parole dirette di attacco a una persona, qualunque sia il suo ruolo nella società, dal politico, all’artista, all’anonimo che invidiamo, disprezziamo o pensiamo di poter “correggere” con lo staffile incorporato nel nostro smartphone.

In questa tragedia, di una tristezza incommensurabile, è possibile osservare l’affacciarsi alla ribalta di un nuovo scenario crepuscolare in cui può scatenarsi il cyberbullismo. Non so se può essere rintracciato un segnale in questa morte, dove si ripete il modulo ricorrente del più atroce degli epiloghi dell’azione vigliacca da parte del branco nei confronti del più fragile; in questo caso però tutto è spostato da un ambiente adolescenziale a quello di persone della terza età e oltre.

Forse ci culliamo ancora nell’illusione che appartenesse unicamente alla devianza adolescenziale l’uso violento e spietato del consenso, attraverso attacchi sferrati per il solo gusto di sentirsi in tanti contro uno, muovendosi senza rischio in campi di battaglia delocalizzati, soprattutto senza nemmeno avvertire il bisogno di motivazioni che richiedano articolazione di pensiero.

Invece dobbiamo iniziare a registrare un dato su cui abbiamo forse troppo sorvolato: siamo oramai tutti capaci a fare del male a un nostro simile, con la presunzione di non sporcarsi le mani. Sappiamo tutti benissimo quanto sia facile alimentare proseliti e accaniti sicari verbali, se riusciamo a creare un bersaglio allettante, facile da colpire, in un istante di momentanea debolezza in cui è più agevole ferirlo in maniera letale.

È certo che quella che spacciamo con leggerezza per una “goliardata”, ha spesso lo scopo consapevole di annientare chi osteggiamo. Quando postiamo cattiveria e chiamiamo a raccolta accoliti sconosciuti solleticando il furor di popolo, possiamo anche millantare che sia una lecita espressione del diritto di critica, o l’anelito di rappresentare il proprio libero pensiero, o una sacrosanta satira. Dobbiamo, però, prenderci anche la responsabilità di iniziare a considerare che, in alcuni casi, un nostro click potrebbe anche contribuire a uccidere.