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di Alessandro Parrotta*

Il Dubbio, 29 marzo 2024

L’ipotesi, all’esame del Senato, di dare un tempo più contenuto per le intercettazioni è avvalorata dalla media americana, che è esattamente di un mese e mezzo. Continua l’attività di revisione in materia di intercettazioni volta a rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate: è dei giorni scorsi un emendamento a firma della senatrice Erika Stefani (Lega), relatrice in commissione Giustizia per la proposta di legge di Pierantonio Zanettin (Forza Italia), in merito al quale chi scrive era già intervenuto su queste pagine. Viene riscritto l’articolo 267 del codice di procedura penale, istituendo il vincolo temporale “fisso” di un mese e mezzo (45 giorni per l’esattezza, congruo, per chi scrive, alla realtà giudiziaria) per lo svolgimento delle intercettazioni; termine entro il quale l’Ufficio di Procura deve portare al Giudice un risultato investigativo. Se assente, nel corso di due periodi di intercettazioni, nessuna proroga. D’altra parte perché accanirsi se non emergono elementi utili all’indagine?

D’altra parte l’emendamento risulta in linea anche con la legislazione di Paesi come gli Stati Uniti, all’avanguardia in materia di raccolta delle prove. Si abbia a riguardo la durata delle intercettazioni e i relativi rinnovi. Nel 2021 sono stati autorizzati, negli Usa, 1.437 rinnovi rispetto ai 30 giorni delle autorizzazioni iniziali. La durata media, perciò, è stata di quarantaquattro giorni. I rinnovi sono diminuiti del 4% in confronto al 2020. Solo per certi reati è possibile, oltreoceano, intercettare per più tempo: se si indaga per narcotraffico, ad esempio. In un caso simile c’è stata un’attività di intercettazione, autorizzata da un giudice statale a Nassau, New York, che, in forza di quattordici rinnovi, è durata 383 giorni. Anche in Francia, il novellato articolo 100- 2 del c. p. p. stabilisce che la durata non può essere superiore a quattro mesi e che la decisione è rinnovabile alle stesse condizioni di forma e di tempo, senza che la durata complessiva dell’intercettazione possa superare un anno o due anni in casi molto particolari: ciò al fine di evitare che la misura possa prolungarsi a tempo indeterminato sulla base della decisione iniziale, senza che il giudice ne controlli regolarmente i risultati e ne apprezzi l’utilità.

I due articoli del codice di rito per i quali, oltralpe, il tempo massimo per le intercettazioni è raddoppiato disciplinano la procedura applicabile ai reati compiuti dalla criminalità organizzata (omicidio commesso in associazione organizzata, tortura e atti di barbarie compiuti in associazione, stupro, sequestro, tratta di esseri umani, traffico di stupefacenti, terrorismo, riciclaggio, associazione a delinquere, ecc.).

Il procedimento nostrano che oggi permette di disporre ed eseguire le intercettazioni è un vero e proprio sotto- procedimento gestito parallelamente alle investigazioni “tradizionali” operate mediante gli strumenti classici delle perquisizioni, delle ispezioni e dei sequestri. In relazione a quanto proposto dalla senatrice Stefani, si discute sulle eccezioni da prevedere per il limite di cui sopra: sicuramente la soglia di 45 giorni non può valere per reati a stampo mafioso e di terrorismo, come spiegava lo stesso Guardasigilli in sede di presentazione della riforma. La materia delle intercettazioni risente dello scontro tra vari interessi, vistosamente in conflitto. Da un lato occorre disciplinare le condizioni che legittimano la compressione del diritto alla segretezza della corrispondenza, dall’altro occorre porre dei presidi di carattere temporale per evitare che un soggetto venga attenzionato sine die; fare altrimenti significa scommettere sulla legge dei “grandi numeri”, sulla probabilità che, prima o poi, emergerà uno spunto sul quale indagare. Una logica sostanzialmente “a strascico”.

La problematica, come si può evincere anche dalle numerose proposte degli ultimi tempi, costituisce da sempre motivo di attenzione e polemiche. Ed è proprio a tutela di quei diritti cari alla Costituzione che la proposta di apporre un limite massimo entro il quale il soggetto possa essere intercettato sterilizza il rischio, non così remoto, di innescare un meccanismo inquirente pigro, in attesa che il soggetto controllato prima o poi cada in fallo ed esprima - con una dizione sospetta - un concetto che possa generare la sua iscrizione al registro degli indagati. Le intercettazioni, in ogni loro tipologia - telefonica, telematica, ambientale -, indubbiamente comportano una compressione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e alla riservatezza delle comunicazioni. Ciò implica quindi la necessità di una rigorosa osservanza del principio di proporzionalità e una riflessione sull’obbligatorietà dell’azione penale.

Sull’annunciata riforma delle intercettazioni, nessun dubbio, dunque, che una modifica in termini più garantistici sia necessaria. Ciò che però desta perplessità è l’aver annunciato una riforma su un tema così sensibile in termini estremamente generici e soprattutto appellandosi a motivi di opportunità: le intercettazioni sono veramente strumento “micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”? Unum facere ed aliud non omittere.