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di Henry John Woodcock

Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2022

I magistrati, gli avvocati, i politici, il Csm e anche i giornalisti hanno finora evitato una discussione seria e aggirano il punto nevralgico: sono il solo mezzo utile per scoprire la corruzione.

Non si può certo dire che il tema delle intercettazioni e il dibattito pubblico su tale mezzo di ricerca della prova costituisca un argomento nuovo e rivoluzionario. Tuttavia è altrettanto indubbio che il “sogno” di ogni ministro della Giustizia rimane quello di legare il proprio nome a una riforma epocale su tale materia.

Tale tema continua a essere affrontato, con grande ipocrisia, indistintamente, da tutte le parti in causa: magistrati, avvocati, politici e giornalisti. Non c’è dubbio che in particolare i magistrati del pubblico ministero, in alcune occasioni si sono purtroppo illusi di dar forza alle proprie indagini sentendosi gratificati dalla pubblicazione di atti di indagine (e in particolare delle risultanze tratte dalle intercettazioni), di regola depositate e dunque non segrete, ma in alcuni casi poco conferenti rispetto all’ipotesi accusatoria perseguita, appunto nell’illusione che il consenso dell’opinione pubblica potesse surrogare l’avallo del giudice.

Spesso, poi, accade che alcuni avvocati si aspettino dalla pubblicazione di intercettazioni riguardanti procedimenti e processi nei quali sono coinvolti loro assistiti una sorta di ritorno pubblicitario, sovente amplificato, in una prospettiva evidentemente distorta, dalla partecipazione degli stessi avvocati a uno dei tanti talk show che si occupano - più o meno sommariamente - di vicende giudiziarie. Ancora gli esponenti politici - senza distinzione di appartenenza - hanno sempre concentrato e continuano a concentrare la loro attenzione sul tema delle intercettazioni esclusivamente quando le stesse riguardano vicende collegate ai reati contro la Pubblica amministrazione, ovvero i così detti reati commessi dai “colletti bianchi”, dimostrando invece assoluto disinteresse e, in alcuni casi anche soddisfazione, nei casi in cui le intercettazioni e la loro pubblicazione riguarda i reati così detti comuni, commessi dai poveri disgraziati e dai diseredati.

Infine i giornalisti - che, non senza un pizzico di ipocrisia, hanno sempre rivendicato il ruolo di “arbitri” terzi rispetto all’annosa diatriba tra operatori giudiziari e politica - hanno avuto e hanno le loro responsabilità nella pubblicazione di fatti e di notizie la cui divulgazione avrebbe dovuto, invece, essere evitata. Troppo spesso, infatti, è stato invocato a sproposito il famoso “dovere di pubblicazione” del giornalista sancito dalla Carta dei doveri, che ha rappresentato un facile alibi per la pubblicazione di fatti e vicende prive di interesse pubblico (e magari improvvidamente e inopportunamente inglobati dagli stessi magistrati nei provvedimenti giudiziari) o, peggio ancora, di notizie che hanno determinato danni, magari irreparabili, per le stesse indagini in corso.

Per concludere, non può non evidenziarsi che anche il Csm ha le sue responsabilità avendo da sempre abdicato al suo potere di normazione secondaria proprio nella materia riguardante il delicato rapporto tra informazione e pubblicazione di atti giudiziari. Il Csm avrebbe potuto intervenire legittimamente dettando disposizioni più puntuali: si intenda bene, non certo sulla pubblicazione da parte degli organi di informazione delle notizie, che, in una democrazia, è e deve rimanere prerogativa assoluta degli stessi organi di informazione, ma piuttosto sulle modalità di rilascio della copia degli atti. Indubbiamente, tale materia risente dell’anomalia tutta del nostro sistema nel quale non vi è coincidenza tra il venir meno della segretezza di un atto e il divieto di pubblicazione dell’atto medesimo. Tant’è che molti procuratori della Repubblica, per superare tale “corto circuito”, hanno adottato la prassi - a mio avviso sana e virtuosa - di valutare caso per caso la possibilità, una volta che gli atti del procedimento vengono depositati e messi a disposizione delle parti (per esempio a seguito dell’applicazione di misure cautelari), di autorizzare formalmente (anche) i giornalisti a estrarre copia degli atti stessi, in modo da evitare e da scongiurare l’odioso quanto inevitabile “mercato delle carte”.

Con riferimento alla questione del rapporto tra giustizia e informazione, è certo che la riforma Cartabia al riguardo non ha proprio colto nel segno. Infatti, da una parte non ha alcun senso aver previsto come nuovo illecito disciplinare quello commesso dal magistrato che informa la stampa dei risultati dell’attività di indagine, e ciò dal momento che - anche a prescindere dalla riforma Cartabia - se un magistrato informa la stampa delle risultanze di indagini in corso prima del deposito degli atti commette un illecito penale, prima ancora che un illecito disciplinare; ha poi ancor meno senso impedire a un magistrato, una volta che gli atti sono stati depositati e le indagini sono concluse, di fornire delucidazioni a un giornalista che, per esempio, sta per pubblicare notizie sbagliate e magari dannose per una parte: si pensi all’ipotesi in cui un giornalista stia per pubblicare la notizia che “Tizio” o “Caio” è stato rinviato a giudizio per un grave reato, mentre invece rispetto a quelle specifiche posizioni il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’archiviazione.

È forse un male evitare che il giornalista che si presenti dal magistrato a chiedere conferma sul punto pubblichi una notizia sbagliata e dannosa per lo stesso cittadino coinvolto? Ancor meno “azzeccata” sembra poi la disposizione secondo la quale solo i procuratori della Repubblica potrebbero parlare con i giornalisti e, ben si intenda, esclusivamente in conferenza stampa; a parte la mia personale idea delle conferenze stampa che fanno venire in mente la straordinaria scena del film Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, pare altrettanto assurdo che, ad esempio, un procuratore della Repubblica che venga contattato telefonicamente da un giornalista di una testata straniera che chiede delucidazioni su un processo ormai chiuso e definito avente a oggetto temi e questioni di rilevanza internazionale assolutamente pubblici, debba essere costretto ad “appendere la cornetta” del telefono o a simulare mutismo.

Tornando, e chiudendo sul dibattuto tema delle intercettazioni (a parte i proclami degli ultimi giorni e l’abusato riferimento agli altri Paesi dell’Europa, che probabilmente non tengono conto del fatto che in Italia, e non in Scandinavia, operano e imperversano a tutti i livelli almeno quattro associazioni di stampo mafioso) va infine evidenziato come esse costituiscano l’unico mezzo di ricerca della prova utile e validamente utilizzabile con riferimento al più diffuso dei reati contro la Pubblica amministrazione, il reato di corruzione, e ciò dal momento che questa - reato “contratto” per eccellenza - appare caratterizzata dalla speculare e contestuale incriminabilità di tutti i protagonisti della transazione illecita in oggetto, dovendosi, dunque, escludere la possibilità, almeno di regola, di ricostruire tali condotte criminose con mezzi diversi dalle intercettazioni.

Ma vi è di più: in materia di corruzione le intercettazioni e l’utilizzo delle stesse sono destinate a diventare ancor più necessarie, rilevanti e imprescindibili se dovesse tradursi in legge l’idea prospettata dal ministro - per molti versi più che apprezzabile - di introdurre nel nostro sistema la previsione della non punibilità per i soggetti che hanno commesso reati di corruzione che denuncino spontaneamente gli illeciti.

Solo le intercettazioni consentiranno di acquisire gli elementi e le risultanze su cui potrà innestarsi la condotta collaborativa del corruttore. A meno che non ci sia qualcuno che immagini che un corrotto o un corruttore si svegli una bella mattina e si presenti spontaneamente al pubblico ministero confessando di aver corrotto o di essere stato corrotto. Speriamo di non esser costretti a sentire anche questo!