di Caterina Malavenda
Corriere della Sera, 24 gennaio 2023
Dopo la riforma entrata in vigore nel 2020 non servono nuove sanzioni: la prova è l’assenza anche solo di ipotesi su come intervenire. Chissà cosa starà pensando l’uomo della strada, fra una bolletta da pagare e il mutuo che aumenta, dell’ennesimo dibattito sulle intercettazioni che, depurato per quieto vivere dei profili più rischiosi presso l’opinione pubblica, si è focalizzato, more solito e con minori rischi, sulle nuove punizioni da infliggere a chi diffonde quelle irrilevanti per le indagini, sia esso il magistrato che le riporta in atti non più segreti o il giornalista che le pubblica. Oltre che stucchevole, il dibattito oggi è fuori tempo massimo, per le drastiche modifiche che intanto sono state apportate alle norme che regolano la materia.
Era il 9 luglio 2010, quando la Fnsi indiceva una manifestazione nazionale contro la legge di riforma delle intercettazioni, il cosiddetto ddl Alfano che limitava i casi nei quali era legittimo pubblicarle, comminando ai contravventori pene detentive: non fu convertito e decadde nel 2011. Nel 2017 ci ha provato e ci è riuscito, invece, il ministro Orlando, con la riforma che porta il suo nome, l’allora ministro della giustizia Bonafede l’aveva bloccata, ma il 1° settembre 2020 è entrata in vigore, se pure modificata, ma reputata dai più un buon compromesso fra opposti interessi.
Da qui il silenzio fino ad oggi e senza che ci sia stato intanto un qualche abuso, vero o presunto, che ne giustifichi l’interruzione. Questa volta, infatti, l’innesco è tutto politico, oltre che ingiustificato, oggi c’è un’udienza filtro, alla fine delle indagini, presenti le parti, nel corso della quale un giudice individua le conversazioni rilevanti per accusa e difesa, il cui contenuto potrà essere pubblicato; e manda tutte le altre in un archivio segreto, nella esclusiva disponibilità del procuratore capo, che risponde in prima persona delle eventuali fughe di notizie.
Residua è vero l’ipotesi del deposito al difensore di tutte le intercettazioni, quando viene eseguita una misura cautelare, con la possibilità che una copia arrivi poi ai giornalisti. Ma si tratta di professionisti, tenuti al rispetto della privacy dei soggetti coinvolti da precise norme deontologiche, violando le quali rispondono anche civilmente dei danni causati, dunque se capita non servono nuove sanzioni.
E la miglior prova è data dalla totale assenza al momento di disegni di legge, decreti o anche solo ipotesi concrete, su cosa e come intervenire, a conferma della totale confusione in cui sembra versare chi ne parla da giorni. È su precise modifiche al sistema attuale che occorrerà confrontarsi se e quando arriverà il momento.
Risultano, perciò, surreali i botta e risposta sul niente, fra esponenti della maggioranza di governo, dove c’è chi auspica nuove sanzioni, anche se solo disciplinari e chi incredibilmente prende le parti dei mai amati giornalisti, escludendo il ricorso al bavaglio, parola che fa scattare il riflesso pavloviano delle consuete reazioni, a tutela della libertà di stampa, in un circolo vizioso in salsa déjà vu, che annoia più che stimolare, difettando lo stesso oggetto del contendere.
È mancato e manca ancora oggi, invece, il coraggio di dire con chiarezza qual è l’obiettivo, per così dire la ratio delle riforme, da sempre vagheggiate da governi e Camere, quale che sia la maggioranza in carica e senza neppure una netta demarcazione fra appartenenze politiche, che usano come paravento la riservatezza di indagati, familiari, affini e conoscenti o la necessità che la sempre utile opinione pubblica sappia tutto quel che c’è da sapere, costi quel che costi.
L’obiettivo è sempre quello, spuntare le unghie, in verità già corte, sia di chi può ancor più offuscare, dando spazio a parole in libertà, un’immagine già incrinata, sia di chi conduce un’indagine che, se resta silenziata, dà meno fastidio. In questi ultimi giorni impazza la tesi secondo cui ci sarebbero fini politici, che prescinderebbero del tutto dai diritti in gioco, persino dalla annosa contrapposizione fra politica e magistratura.
Ma se l’oggetto delle preoccupazioni fossero davvero le intercettazioni e il loro uso indiscriminato, la sempre verde gogna mediatica, si potrebbe stare tranquilli. Se, invece, l’occasione per regolare conti interni viene usata ancora una volta anche per evitare il rischio, oramai remoto, ma sempre possibile, che vengano fuori conversazioni imbarazzanti, penalizzando chi le diffonde, è preoccupazione che non affligge certo quell’uomo della strada, perbene e rispettoso delle leggi, che ha la stessa possibilità di entrare in un brogliaccio quanto di vincere all’enalotto.