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di Simona Musco

Il Dubbio, 14 ottobre 2023

Parla l’ex sindaco, la cui condanna è stata fortemente ridimensionata dai giudici di secondo grado: “Salvini? Abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti, non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia”.

Riace è un via vai di gente. Non solo da mercoledì, quando i giudici della Corte d’Appello hanno sancito che Mimmo Lucano non ha sfruttato l’accoglienza per un proprio tornaconto, ma dal 1998, quando uno sbarco di curdi rese il paesino dei bronzi crocevia di popoli. “Ho sofferto molto”, racconta l’ex sindaco finito a processo per quell’utopia della normalità che altro non è se non la convivenza pacifica tra i popoli. Ma da quel dolore è nata un’altra speranza: “Subito dopo la condanna in primo grado - racconta - ho sentito forte, attorno a me, l’indignazione di molti. Pensavo tutto fosse finito, invece quell’accoglienza che sembrava destinata a morire è rinata. Ancora una volta spontaneamente”.

Da 13 anni e 2 mesi a un anno e mezzo il passo è grande. Come si sente a cinque anni dall’arresto che ha stroncato la sua attività politica?

Non provo rancore, non voglio vendetta. Ma ho sempre pensato che qualcosa non tornava. Quella inchiesta non aveva a che fare con la mia storia, con il mio impegno, con i miei ideali. Era un mistero. Era facile dichiararsi innocente, ma non ho mai voluto sconti o condizioni particolari. Non mi sono sentito un “prigioniero politico” e non volevo sembrarlo: se ho sbagliato, ho sempre detto, devo pagare. Era una questione d’orgoglio per il mio impegno politico, legato anche alle rivendicazioni non vittimistiche di una terra che, spesso, viene rappresentata per luoghi comuni. Non miravo solo ad accogliere, ma anche a riscattare la Calabria, legata all’immagine negativa della criminalità organizzata.

Cosa ha pensato dopo l’assoluzione?

Il mio primo pensiero, dopo la sentenza, è andato ad Antonio Mazzone, uno dei miei difensori, morto durante il processo. Sin dal primo istante, mentre la procura si difendeva dall’accusa di voler fare un processo politico, ha deciso di dedicarsi anima e corpo, gratuitamente, per inseguire lo stesso sogno, lo stesso ideale di giustizia e di riscatto.

Come si spiega questa differenza abissale tra primo e secondo grado?

Me lo domando pure io. L’accoglienza ha avuto sin da subito la fisionomia di un riscatto politico. I primi profughi, nel 1998, provenivano dal Kurdistan. Sono arrivati dicendo: non vogliamo l’elemosina, ma giustizia per il nostro popolo, libertà. Erano combattenti per la libertà ed io sono diventato uno di loro. Questo è stato Riace e la cosa più dura è stata la volontà di stravolgere questa storia. C’è una differenza abissale tra Riace e il racconto criminale che ne è stato fatto. La stessa distanza che c’è tra queste due sentenze.

È tutta l’idea di sistema che viene spazzata via: nessuno ha commesso reati, secondo questa sentenza. Vuole sapere chi erano i miei “complici”?

Monsignor Bregantini, che in aula ha definito quella di Riace una storia profetica. Padre Alex Zanotelli, che ha speso la vita nelle baraccopoli cercando la luce per le persone povere. Giovanni Ladiana, uno straordinario prete antimafia, il missionario scalabriniano Salvatore Monte. Questa era la mia “associazione a delinquere”. Come poteva essere un crimine la solidarietà? Questo me lo devono spiegare. La mia storia giudiziaria inizia nel 2016, negli anni delle leggi più repressive contro chi si occupa di solidarietà, contro i salvataggi in mare, le ong. Riace era stata presa come esempio: in un’area il cui destino sembra segnato, l’accoglienza aveva prodotto un valore straordinario, capace di rigenerare le realtà. Era diventata un’indicazione per il mondo: raccontava che le migrazioni non sono un’invasione, come ci raccontano oggi, dove ad essere criminalizzate sono addirittura le vittime. Avevamo dimostrato che si poteva fare accoglienza con umanità e che i migranti erano preziosi cittadini per la rinascita dei luoghi. E hanno messo in piedi un teorema.

Ma qual era il messaggio pericoloso di Riace?

La risposta è semplice: le destre hanno costruito tutto il loro consenso politico su questo unico argomento, il contrasto all’immigrazione. I termini che usano sono ormai nel vocabolario di tutti, occupano tutti gli spazi con l’egoismo. Si vogliono rafforzare i confini, si invoca la sicurezza, che giustifica la produzione delle armi, giustifica la guerra e la morte. Riace era la prova che tutto questo non è necessario.

Mentre parliamo Roberto Saviano viene condannato per aver criticato pesantemente queste politiche. Vuole dirgli qualcosa?

Che ha tutta la mia solidarietà. È stato tra i primi a capire che non era una storia criminale, la nostra. Mi auguro che ne esca completamente, lui così come tutti coloro che combattono per la libertà.

Qual è stato il momento peggiore?

La condanna a 13 anni e due mesi, il 30 settembre 2021. Mi sembrava tutto finito, ero smarrito, sconfortato. Non capivo perché stesse accadendo. Non avevo fatto nulla di ciò di cui mi accusavano, non ci avevo guadagnato nulla, anzi, avevo distrutto la mia famiglia, ho creato loro tanti problemi. Facevo il sindaco, ma non ho mai pensato di approfittare del mio ruolo. Ho pagato di tasca mia le carte d’identità che mi venivano contestate. La generosità è reato? Ok, magari posso aver fatto degli errori amministrativi. Ma come si può voler condannare qualcuno che fa una carta d’identità per un bambino di 4 mesi che altrimenti non può curarsi? Gli aspetti burocratici possono prevalere sulla vita delle persone? Becky Moses è morta bruciata in una tendopoli per colpa di norme restrittive che le impedivano di fare ricorso contro il diniego del riconoscimento dello status. La carta d’identità che le ho fatto ha consentito di identificare il suo corpo. Mi hanno detto che non potevo, ma sono orgoglioso di averlo fatto: prima veniva la vita di una ragazza in viaggio con una speranza che si chiama vita, poi la burocrazia.

Oggi le politiche sono quelle che lei contrasta...

La propaganda su cui si fondano hanno fatto diventare la società egoista e si scontrano con gli ideali che io inseguo. C’è una visione delle cose che rifiuta i valori sociali, il senso di fraternità, la dignità delle persone, i diritti umani. È sorprendente che riescano ad avere consenso. Hanno instillato paura, quella che noi avevamo dimostrato essere inutile: abbiamo solo vissuto nella normalità dei rapporti umani.

Dopo la condanna come si è rialzato?

Quella sentenza, paradossalmente, è stata l’occasione per una rinascita. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata da piazza Montecitorio. C’era tanta gente e a chiamarmi era Luigi Manconi. Sentivo centinaia di voci protestare contro la mia condanna, sentivo molta indignazione e solidarietà. Ho sentito parole bellissime. Era l’inizio di una raccolta fondi per pagare la mia multa da 700mila euro. Ma non mi importavano i soldi, mi importava sapere che tanti condividevano il mio stesso sogno.

Quei soldi che fine hanno fatto?

Non ho mai voluto che qualcuno pagasse per me quella sanzione. Era una questione di principio. Ma quei fondi - in poco tempo hanno raccolto quasi 400mila euro - non potevano essere usati per altro. Così li ho autorizzati ad usarli per fare accoglienza a Riace. Quei soldi, ora, tengono in vita il villaggio globale, pagano le borse lavoro per le famiglie di rifugiati, hanno salvato quell’idea di accoglienza. Sono tornato a fare, istintivamente, ciò che ho sempre fatto. Come vedete non era una questione di potere politico.

A proposito, vuole tornare a fare politica?

Ma fare politica cosa vuol dire? La facciamo anche respirando. Non me ne sono mai allontanato. Posso essere sindaco, un volontario, un cittadino attivo: mi basta partecipare. L’accoglienza è il mio orizzonte. E quello che uno è prescinde dal ruolo che occupa. Il senso della politica, spesso, si perde nei formalismi.

Vuole dire qualcosa a chi ha esultato per il suo arresto e la sua condanna, ovvero Matteo Salvini?

Posso dire solo che abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti. Non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, una politica in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia.