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di Cristina Piccino

Il Manifesto, 7 settembre 2023

Venezia 80. Presentato in gara e da oggi in sala “Io Capitano” di Matteo Garrone, i sogni giovani di migrazione. L’ avventura di due adolescenti, il desiderio di scoprire il mondo, la rotta mediterranea tra violenza e ricatti. “Io Capitano” il nuovo film di Matteo Garrone - penultimo titolo italiano in concorso - può essere definito un romanzo di formazione al presente, costruito cioè nel confronto con la realtà del nostro mondo del quale il regista romano prende e mescola i frammenti in una cifra fantastica che si fa trama del reale. Cosa racconta dunque Io Capitano? Di coloro che percorrono la rotta del Mediterraneo, e partono dai loro paesi in cerca di un’altra vita da qualche parte nell’Europa per finire molto spesso in fondo al mare. E se sopravvivono subiscono comunque brutalità di ogni tipo, botte, torture, ricatti, richieste di soldi, stupri, diventano schiavi, sono venduti, uccisi. È quanto la cronaca riporta ogni giorno, persino col rischio di produrre una sorta di “assuefazione”, quasi che tutto questo sia il risultato ineluttabile della nostra epoca, e tale riduzione a numeri o statistiche in cui si perdono i singoli vissuti delle persone sembra persino d’aiuto alla politica più reazionaria dei respingimenti e della paura.

Garrone nel confrontarsi con questa materia fa una scelta contraria a quella del film “a tema” mettendo al centro della sua storia due adolescenti che non sono “vittime”, non hanno cioè quella “giustificazione” per andare via da guerre, persecuzioni, economie traballanti ma seguono l’impulso incosciente di avventura e curiosità verso il mondo della loro età. Certo la casa di Seydou a Dakar è un po’ cadente ma anche se dormono tutti assieme in una stanza piccola lui e le sue sorelline sono felici. Le ragazzine lo adorano, e così la mamma, lui va a scuola, fa rap con gli amici e le amiche, suona alle feste dove la madre e le ragazzine ballano scatenate. Lo stesso vale per suo cugino, Moussa, eppure i due ragazzi hanno deciso di tentare il mare. Lavorano da mesi nei cantieri per mettere via i soldi, Seydou pensa così di aiutare la madre visto che il papà è morto, e forse crede al cugino quando gli dice che con la sua musica lì in Europa diventerà famoso e i “bianchi gli chiederanno l’autografo”.

Poco importa se parlando con chi ci ha provato gli viene detto che non è come pensano, che la strada sarà piena di morti, che quanto vedono in tv non è vero, l’Europa non è il paradiso. Seydou e Moussa fantasticano altri orizzonti come tanti e tante adolescenti ovunque, come quando anche noi avevamo le tessere ferroviarie per girare ogni paese. Perché negargli questa possibilità di partire e di tornare? Seydou ha pure molti dubbi, si sente in colpa, se ne andrà di nascosto, senza dirlo all’amatissima madre sapendo che lei non vuole e che potrà essere per sempre. E però: esiste “per sempre” a sedici anni?

Inizia così il loro on the road: attraverso l’Africa verso il mare, da Dakar arrivano in Mali, poi Niger, Libia, la “rotta” ha la sua mappa che segna passaggi radicali a ogni confine mentre l’eccitazione dell’inizio si trasforma presto in panico, dolore e violenza. Non è come gli avevano promesso portandogli via tutti i risparmi, gli uomini che li guidano vogliono solo finire in fretta. Loro sono pacchi, merci da vendere e da comprare che passano di mano in mano senza poter difendersi.