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di Gabriella Cantafio

La Repubblica, 20 novembre 2023

Marcella ha vissuto per più di due anni nell’istituto di Lauro, in Irpinia: “Non ci porterei più Giovanna, è rimasta scioccata per sbarre e perquisizioni. L’unica soluzione per il bene dei bimbi è la casa famiglia”. “Col senno di poi, non porterei mia figlia nell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri ndr)”. A ripeterlo, mentre è stato approvato il nuovo Ddl sicurezza che elimina l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate incinte o con figli fino ai 3 anni, è Marcella, 41enne napoletana, che, per 2 anni e 7 mesi, ha vissuto nell’Icam di Lauro, vicino ad Avellino, con la sua piccola Giovanna.

Cosa l’ha spinta a cercare una soluzione in un Icam?

“Le lacrime versate da mia figlia ogniqualvolta, a fine colloquio, quando ero in carcere a Pozzuoli, doveva distaccarsi da me. Aveva 4 anni quando ho creduto che per assicurarle il mio affetto fosse preferibile trasferirci in uno di questi istituti che immaginavo come una sorta di casa famiglia”.

Invece in che realtà si è ritrovata?

“Sembra una struttura accogliente, con altalene nel cortile. Ma, seppur le misure siano attenuate e gli agenti indossino abiti civili, dentro ha le sembianze di un carcere con cancelli e porte blindate. Ogni stanza ha finestre con sbarre e spioncini da cui si viene controllati. Il momento più brutto è la sera, quando gli agenti chiudono a chiave le porte delle stanze che vengono riaperte l’indomani. Per mia figlia, era un appuntamento fisso con la disperazione”.

Così piccola, sapeva dove si trovava realmente?

“No, inizialmente per lei quella era casa di mamma e quando nei weekend usciva equivaleva a una vacanza a casa di papà. Quando, però, mio marito è stato arrestato e non è più venuto a prenderla, si è sentita abbandonata. Allora ho capito che non potevo più mentire. Le ho spiegato cosa era successo e dove ci trovavamo realmente”.

Com’è diventata la quotidianità di sua figlia nell’Icam?

“Destabilizzata, ma contenta di stare con me. Cercava di vivere la sua quotidianità tra la scuola, dove veniva accompagnata con un pulmino insieme agli altri bambini, e i momenti di svago che, purtroppo, erano davvero pochi. Sono stata tra le prime detenute a entrare nell’istituto di Lauro, non c’era nulla. Poi, piano piano, grazie al Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, siamo riusciti ad assicurare qualche attività ai nostri figli. Visto che sono una cuoca, mi sono offerta di preparare dolci per festeggiare i compleanni dei nostri bambini. Una volta a settimana, venivano alcuni volontari che li intrattenevano con giochi e disegni. Il resto della settimana si organizzavano tra di loro. D’estate, improvvisavano bagni a mare con una pompa dell’acqua”.

Quindi si respirava un’atmosfera serena?

“Non proprio, anche i bambini, sotto certi aspetti, venivano trattati come detenuti, perquisiti quando rientravano dal weekend fuori o dai colloqui. Tornare in struttura per mia figlia era un incubo. Per convincerla capitava che mio marito le comprasse colori o merendine, ma spesso gli agenti non le permettevano di portarli con sé”.

Quale carenza ha percepito maggiormente?

“La carenza di educatori, ma anche di psicologi. Gli operatori presenti, talvolta, rispettando troppo l’autorevolezza richiesta dal proprio ruolo, sono privi di umanità. Ciò comporta ripercussioni psicologiche sui bambini”.

Nel caso di Giovanna?

“Seppur ora siamo a casa con gli altri miei due figli, in attesa di risolvere definitivamente i miei problemi con la giustizia, Giovanna non è serena. Ha rimosso il periodo vissuto nell’Icam, non vuole parlarne. È molto chiusa, diffidente nei confronti dei compagni, teme il loro giudizio. Aver vissuto la fase della crescita solo con me l’ha privata del senso familiare: è gelosa dei fratelli, crede sia soltanto sua madre e teme di perdermi”.

Crede che l’epilogo sarebbe stato diverso in una casa famiglia?

“Questi contesti comportano sempre problematiche. Me ne assumo la colpa, ma ribadisco che i bambini non devono pagare per i nostri errori. In un ambiente più domestico, il percorso sarebbe stato sicuramente meno difficile. Proprio per questo, dinanzi alle nuove norme previste dal Pacchetto sicurezza, sostengo la battaglia per chiedere di intensificare le case famiglie e assicurare ambienti confortevoli a mamme e figli, senza doversi sentire sotto continuo controllo. Con lo sguardo volto ai bambini che altrimenti faticheranno a conoscere il significato della libertà, come accaduto alla mia piccola”.