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di Gabriella Colarusso

La Repubblica, 5 agosto 2023

Anche lui impegnato nella ricerca, anche lui in un ateneo. Ma a Novara. l’Iran lo ha condannato a morte. Eppure molti ignorano la sua storia. chi è Ahmadreza Djalali? Si è mossa l’università del Piemonte orientale di Novara, dove ha lavorato per oltre tre anni. Si è mobilitata Amnesty, che da tempo porta avanti una campagna per la sua liberazione. Sono scesi in piazza l’Associazione italiana di Epidemiologia, la Federazione nazionale della Stampa, la Conferenza dei rettori e molti atenei italiani.

Il suo viso smunto da sette anni di isolamento in carcere è diventato anche un disegno di Gianluca Costantini, l’autore del ritratto di Patrick Zaki diventato il simbolo della campagna per riportarlo a casa: è stato creato anche un hashtag, #SaveAhmadreza. Sulla carta dunque gli ingredienti c’erano tutti: eppure, al contrario di quella dello studente egiziano, la storia del ricercatore iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, 51 anni, padre di due figli, arrestato in Iran nel 2016, condannato a morte per spionaggio, è rimasta nel circolo ristretto dei difensori dei diritti umani e dell’università, senza raggiungere il grande pubblico.

Non c’è stato l’effetto Bologna, l’eco che la mobilitazione di una intera città è riuscita a dare al caso Zaki. Niente manifesti pop né catene umane e digitali. Djalali non ha i ricci ribelli e la parlantina spigliata del trentenne egiziano. La sua storia non è arrivata sul palco del Festival di Sanremo. Eppure ben più a lungo di Zaki, Djalali è stato ricercatore in Italia. Quando nel 2016 fu arrestato a Teheran con l’accusa di spionaggio, lavorava al Centro di ricerca sulla medicina dei disastri di Novara e i primi a scendere in piazza per lui furono proprio i colleghi. La campagna è andata avanti, ma la società civile di Novara è rimasta sempre un po’ laterale. Il risultato è che l’Italia quasi non si è accorta di Ahmadreza Djalali. Perché?

Una ragione vera neanche chi ha seguito la campagna riesce a trovarla: “Non siamo stati in grado finora di ottenere l’attenzione necessaria per liberarlo”, dice Tina Marinari, responsabile delle campagne per Amnesty International Italia. “Probabilmente anche a causa delle accuse che gli sono state mosse”. Anche il contesto politico è diverso. Il precedente dell’omicidio di Giulio Regeni per mano degli apparati di sicurezza del Cairo aveva suscitato clamore in Italia, squarciando il velo sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. Quando il governo ha trattato con il presidente Abdel Fath al Sisi aveva gli occhi dell’opinione pubblica puntati addosso: molto meno per l’Iran, nonostante le proteste degli ultimi mesi siano state seguite anche qui. Specializzato in medicina d’urgenza, Djalali è un cittadino iraniano naturalizzato svedese, ha lavorato con la Free University (Vub) di Bruxelles e per tre anni con l’ateneo piemontese, sempre mantenendo rapporti accademici con l’Iran: ci tornava spesso per partecipare a convegni e conferenze. Proprio in uno di questi viaggi è stato arrestato: era l’aprile del 2016. L’accusa è tra le più gravi nel codice iraniano: spionaggio per conto di Israele. Dopo nove mesi di detenzione, settimane di isolamento, l’impossibilità di parlare con avvocati e famiglia, è arrivata la condanna a morte: al termine di un processo che le organizzazioni per i diritti umani definiscono politicamente motivato. Soprattutto, senza prove. “Era stato avvicinato dai servizi, volevano che diventasse un informatore: ha rifiutato. L’arresto è stata una rappresaglia”, insiste Marinari. Rinchiuso in una cella di due metri per due a Evin, il carcere dei prigionieri politici, il ricercatore ha perso più di 15 chili, ora ne pesa 50.

“Ha una forma di leucemia autodiagnosticata perché non gli fanno analisi del sangue”, denuncia al Venerdì Vida Mehrannia, sua moglie, da Stoccolma, dove vive con i due figli. Prima gli consentivano di telefonarle una volta a settimana: “Ora non più. Chiama i suoi parenti in Iran, loro avvicinano i due telefoni e così sentiamo le nostre voci”. E ancora: “L’Europa ha dimenticato mio marito. Faccio appello all’Italia perché mi aiuti a liberarlo. Lui era molto legato al vostro Paese”. Qualche giorno fa, l’agenzia di stampa iraniana Mehr ha scritto che l’esecuzione sarebbe imminente. Gli appelli per salvarlo si sono rinnovati: la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha chiesto che venga annullata la condanna. Ma l’Europa ha bisogno di tenere aperto un canale con Teheran, sul nucleare e sulla cooperazione militare con Mosca: lo spazio per offensive sui temi umanitari è stretto. Probabilmente anche perché Djalali è finito al centro di una contesa che incrocia uno dei passaggi più oscuri della Storia iraniana.

Il 9 novembre del 2019 a Stoccolma, la polizia svedese arresta Hamid Nouri, un ex funzionario della magistratura iraniana. L’accusa è di essere stato tra i responsabili del più grave massacro della storia post-rivoluzione khomeinista: migliaia di oppositori furono giustiziati senza processo per silenziare il dissenso. Tra i giudici che ordinarono le esecuzioni c’era anche Ebrahim Raisi, l’attuale presidente dell’Iran. Il processo è durato anni e si è concluso con una condanna all’ergastolo. Nouri sa troppe cose, l’Iran lo rivuole indietro: ma la Svezia non cede. Per questo uno scambio diretto è impossibile.

“Nouri è un criminale, mio marito è un innocente”, dice la signora Mehrannia. Per lei l’occasione persa è stata a maggio, quando il Belgio ha chiuso un accordo con l’Iran per la liberazione del cooperante Olivier Vandecasteele, condannato per spionaggio, rilasciando Assadolah Assadi, un “diplomatico” condannato a 20 anni di carcere per aver architettato un attentato. La signora Mehrannia sperava che il marito venisse incluso nello scambio, ma non è avvenuto. E sul caso Djalali è tornato il silenzio.