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di Farian Sabahi

Il Manifesto, 6 ottobre 2023

Sedici anni, viaggiava in metro senza velo. A picchiarla un gruppo di agenti donne. Arrestata la madre, minacciati i compagni di scuola. Non saranno le minacce a impedire la diffusione delle notizie. Continuano a giungere grazie all’impegno della società civile e di organizzazioni non governative.

A distanza di un anno dalla morte della ventiduenne iraniana di etnia curda Mahsa Amini, il copione si ripete: una giovane donna viene arrestata dalla polizia morale di Teheran e ricoverata per le percosse. La sua stanza d’ospedale è presidiata dalle forze dell’ordine. I familiari cercano invano di starle vicino, subiscono intimidazioni. A finire in questo girone dantesco è Armita Geravand: sedici anni, originaria di Kermanshah (nel nordovest, dove la maggior parte della popolazione è curda), residente nella capitale Teheran.

La mattina del primo ottobre Armita stava andando a scuola senza il velo, obbligatorio nella Repubblica islamica. Nella stazione di Shohada, nel suo vagone sono salite le poliziotte in chador nero. Una di loro le ha gridato contro chiedendole perché non fosse velata. La ragazza le ha risposto: “Ti sto per caso chiedendo di toglierti il velo? Perché chiedi a me di portarlo?”. Aggredita, è ricoverata per trauma cranico all’ospedale Fajr ed è in coma da domenica. La giornalista Maryam Lofti ha scritto di lei sul quotidiano Shargh, è stata fermata e poi rilasciata. Ieri pomeriggio la madre Shahin Ahmadi è stata arrestata. Il direttore della sicurezza del ministero dell’istruzione si è recato nella scuola di Armita, diffidando insegnanti e allievi “dal diffondere qualsiasi notizia e foto della giovane sui social media”. Chi osa contravvenire rischia “pesanti multe e la fine immediata dei contratti”.

Armita vuol dire virtuosa, pura, umile. È un nome avestico, la lingua del testo sacro dei fedeli di Zoroastro, il profeta che per primo portò il monoteismo sull’altopiano iranico. Dopo la rivoluzione del 1979, molte famiglie scelsero nomi preislamici per i figli per dissociarsi dall’integralismo di regime. L’Iran vanta uno dei tassi di istruzione più alti dell’Asia, le donne sono due terzi delle matricole universitarie e dei laureati. Ora, in questo Iran in cui sono le donne a vincere il Nobel per la Pace (Shirin Ebadi 2003) e la medaglia Fields per la matematica (Maryam Mirzakhani 2014), vi sono ancora donne che si arruolano nella polizia morale. Per molte sarà un modo per guadagnarsi da vivere. Per altre vi sarà una motivazione ideologica: contribuire a contrastare l’influenza di quell’Occidente che impone sanzioni, cerca di isolare l’Iran e minaccia di invaderlo come ha già fatto con l’Afghanistan nel 2001 e con l’Iraq nel 2003.

Di fronte alle proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini, le autorità iraniane hanno deciso di tenere la linea dura su tutti i fronti, in primis sull’obbligo del velo. Ad appoggiare questa scelta è la Cina che rifornisce gli apparati di sicurezza iraniani delle tecnologie necessaria al riconoscimento facciale e quindi alla repressione. Al tempo stesso, Pechino ha mediato il riavvicinamento dell’Iran con l’Arabia saudita, con cui i rapporti diplomatici si erano interrotti nel gennaio 2016. Inoltre, mentre l’Occidente continua a imporre sanzioni, altre potenze hanno accolto l’Iran nella Shanghai Cooperation Organization e hanno invitato la Repubblica islamica nei Brics. Non saranno le minacce a impedire la diffusione delle vicende della sedicenne Armita. Le proteste di questi ultimi dodici mesi dimostrano che le informazioni continuano a giungerci dall’Iran grazie all’impegno della società civile e di organizzazioni non governative.

Il movimento “Donna vita libertà” non ha un leader, come d’altronde non lo hanno #metoo e #blacklivesmatter. Di conseguenza, non può essere decapitato come era successo con l’Onda verde del 2009, quando i leader Mir Hossein Mussavi, Zahra Rahnavard e Mehdi Karrubi erano fatti sparire dalla circolazione. Inoltre, il movimento “Donna vita libertà” ha varcato le frontiere dell’Iran. Bocca chiusa e testa bassa, ai campionati di calcio di Doha la nazionale iraniana ha fatto accendere i riflettori sulle violazioni dei diritti umani in Iran.

“Non sarà ancora rivoluzione, come tanti l’hanno definito”, ma il cambiamento che ha prodotto quel movimento in parte già lo è, dice Luciana Borsatti, già corrispondente dell’Ansa a Teheran, nel volume Iran. Il tempo delle donne (Castelvecchi 2023). “Nonostante la repressione e una potenziale stanchezza fisiologica, il suo potenziale dirompente non sembra affatto essersi esaurito - dice - È solo questione di tempo perché altre scintille inneschino nuove fiamme”.