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di Simona Musco

Il Dubbio, 25 settembre 2023

Un anno dopo la nascita del movimento “Donna, Vita, Libertà” il regime inasprisce il “gender apartheid”. I diritti umani, in Iran, hanno il volto delle donne. E portano i nomi di tutte coloro che si sono opposte al regime, alle regole barbare, a volte rimettendoci la vita. Sono donne come Nasrin Sotoudeh, avvocata che ha messo la sua sconfinata energia al servizio della difesa del suo popolo. O Mahsa Amini, morta per una ciocca “fuori posto”, non adeguatamente coperta dal velo. “Per me, rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è un’opzione. In realtà, trovo più difficile sopportare le ingiustizie sociali che la prigione”, ha spiegato Sotoudeh poco tempo fa.

Accusata di “propaganda sovversiva” e di “aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza” - ha difeso le donne che si sono rifiutate di portare il velo -, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 138 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, l’attivista era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo.

La sua azione a favore dei diritti umani è stata premiata nel 2012 dal Premio Sacharov, assegnato dal Parlamento Europeo. Ma la sua lotta per le donne arrestate tra dicembre 2017 e gennaio 2018 per essersi tolte il velo in pubblico, contraddicendo la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979, l’ha fatta finire di nuovo nelle maglie della “giustizia” e della spaventosa prigione di Evin, a Teheran, un buco nero dove la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno. È lì che vengono mandati giornalisti iraniani e stranieri, blogger, attivisti, studenti, registi, scrittori e chiunque abbia in qualche modo tentato di ribellarsi o anche solo criticare il regime degli Ayatollah. Soprattutto le donne.

E sono proprio loro, in prima fila con Mahsa Amini, le protagoniste del Premio Sacharov 2023, uno dei riconoscimenti più prestigiosi assegnati dal Parlamento Europeo a individui o gruppi che si sono distinti nella difesa dei diritti umani e della libertà di pensiero. Le candidature sono state presentate dagli eurodeputati nel pomeriggio del 20 settembre e ben tre gruppi parlamentari hanno proposto di premiare le donne iraniane, impegnate da oltre un anno nelle proteste a difesa dei loro diritti e contro la legge sull’hijab. Una scelta che rappresenta la celebrazione della forza, del coraggio e della determinazione di donne che hanno affrontato sfide incredibili nella battaglia per i diritti umani in un Paese che li nega quotidianamente, rendendo legge discriminazioni legali e sociali di ogni genere.

Il volto delle proteste è oggi quello di Mahsa Amini, la 22enne brutalmente picchiata e uccisa dalla famigerata polizia morale di Teheran esattamente un anno fa, il 16 settembre 2022. La giovane donna è stata fermata a un posto di blocco, all’ingresso dell’autostrada Haqqani, dalle “Guidance Patrol”, la famigerata polizia morale custode della Sharia. La sua colpa: indossare l’hijab, il velo islamico, in maniera “non appropriata”, per via di quella ciocca di capelli che sfuggiva al tessuto. Mahsa è stata così arrestata - per un “ripasso di moralità” - e picchiata durante il tragitto in carcere, tanto da rendere necessario il ricovero in ospedale. Ma lì ci è arrivata in stato di morte cerebrale, fino alla morte, esattamente un anno fa, il 16 settembre, dopo tre giorni in terapia intensiva nell’ospedale di Kasra.

L’hanno trascinata per darle una “lezione di moralità” e dopo poco è finita in ospedale, da dove è uscita cadavere. La polizia ha negato ogni responsabilità, sostenendo che ad ucciderla sia stato un problema cardiaco, nel chiaro tentativo di insabbiare la vicenda. Ma la verità era già chiara, complice anche il post pubblicato su Instagram il giorno della morte della 22enne dalla clinica dove si trovava ricoverata, che attestava che la giovane era arrivata in ospedale già in stato di morte cerebrale. Diversi medici hanno dichiarato inoltre la presenza di una lesione cerebrale, tra cui sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi, con fratture ossee, emorragia ed edema cerebrale. Le autorità hanno però continuato a nascondere la verità, con un’autopsia farsa eseguita dall’Organizzazione di medicina legale di Teheran: secondo il rapporto, a provocare la morte di Mahsa sarebbe stata una “insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale”, causata da un’improvvisa perdita di conoscenza con “caduta a terra”.

Il funerale, celebrato due giorni dopo, ha dato il via all’ondata di protesta che ha travolto l’Iran: le donne presenti hanno tolto il velo, intonando per la prima volta inno della rivolta, quel “Donna, vita e libertà” diventato simbolo di lotta in tutto il mondo. In strada sono scese donne di ogni età, ma anche uomini, tutti pronti a sfidare l’autorità dell’Ayatollah Ali Khamenei, al grido “Morte al dittatore”.

Una protesta che ha fatto il giro del mondo e che ha spinto molte donne a filmarsi nell’atto di tagliare simbolicamente una ciocca di capelli, per dichiarare solidarietà ma anche la propria sfida alle autorità iraniane. La cui risposta è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. Tra loro Hadis Najafi, 23 anni, uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto, al viso; Hananeh Kia, 23 anni, colpita da un proiettile; e Ghazale Chelavi, 32 anni.

A finire nelle mani del regime anche diversi minorenni. E sono stati migliaia di arresti illegali oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione: a oggi, sono sette le persone per le quali è stata eseguita la condanna a morte. Tra le persone finite in carcere anche lo zio di Mahsa e l’avvocato della famiglia, Saleh Nikbakht, accusato di “propaganda” per le interviste rilasciate ai media stranieri sul caso. A un anno da quegli eventi, le donne in Iran sono ancora sotto minaccia: il Consiglio dei guardiani della Costituzione - un organismo composto di soli uomini - ha infatti approvato un provvedimento che impone hijab e castità, pena la prigione.

Chiunque non osservi i nuovi regolamenti, con l’aggravante della “collaborazione con governi, reti, agenti e media stranieri”, riceverà punizioni che possono arrivare fino a 10 anni di reclusione, mentre il regolamento sul velo previsto fino a pochi giorni fa dall’articolo 638 del codice penale islamico iraniano puniva qualsiasi atto ritenuto “offensivo” per la pubblica decenza con la reclusione da dieci giorni a due mesi o 74 frustate. Insomma, un inasprimento abnorme, rispetto ad una legge già inaccettabile, che rappresenta secondo ll’Onu e alcune organizzazioni non governative come Human Rights Watch - un vero e proprio “gender apartheid”.