sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesca Paci

La Stampa, 7 dicembre 2023

Domenica sarà il marito a ritirare il suo premio Nobel per la pace. Nella lettera che pubblichiamo l’ultimo appello contro le esecuzioni. Domenica 10 dicembre Taghi Rahmani, marito dell’attivista iraniana e neo Nobel per la Pace Narges Mohammadi, salirà sul palco dell’accademia di Oslo con i figli per ritirare il premio a nome della moglie, arrestata per l’ennesima volta 21 mesi fa e detenuta nel famigerato carcere di Evin, dove da una settimana si trova in isolamento perché, evidentemente, basta la sua voce, capace di trovare una qualche via di fuga anche dalla cella più remota, a spaventare il regime di Teheran. Le ultime parole arrivate all’esterno sono quelle contenute nella lettera che pubblichiamo, pietre contro l’ennesima esecuzione di due attivisti, uno dei quali minorenne, giustiziati a novembre. Poi il silenzio, pesantissimo: anche il telefono della prigione da cui solitamente Narges parla con la sorella non risponde più. Troverà un altro modo, è sicuro: per ora deve tacere. Nel frattempo altri due oppositori sono stati impiccati dopo processi farsa e confessioni che le organizzazioni per i diritti umani denunciano essere state estorte con la tortura.

La macchina della morte è uno schiacciasassi che avanza sull’Iran divorando i suoi figli. L’eco della guerra che si allarga dal Medioriente all’Ucraina, isolata nel più glaciale dei suoi inverni, è musica per le orecchie del regime di Teheran che in queste settimane, per occultare la rivoluzione “Donna vita libertà”, ha messo in campo tutti gli sforzi geopolitici possibili giocando su tavoli multipli, da quello energetico con gli ex arcinemici sauditi fino a Mosca, dove il presidente iraniano Raisi arriverà oggi per discutere con l’omologo russo Vladimir Putin la crisi nella striscia di Gaza. Tutto, pur di silenziare le attiviste e gli attivisti che, trasparenti in questo momento sui media internazionali ma niente affatto afoni, hanno aggiunto al nome di Mahsa Amini quello della sedicenne Armita Garavand, morta anche lei dopo le percosse della polizia religiosa, e quello di Narges Mohammadi, la piccola grande voce che le sbarre non riescono a contenere. Gli ayatollah stanno dunque vincendo la loro sfida interna, con la complicità della distrazione delle grandi potenze e della stanchezza dell’opinione pubblica mondiale? La risposta è nelle ragazze che, dopo quasi 600 morti e ventimila persone arrestate in un anno e mezzo, continuano a uscire di casa senza velo sotto lo sguardo minaccioso ma impotente degli agenti del regime.

“La Repubblica Islamica dell’Iran non è un attore internazionale con cui dialogare per accordi di pace, accordi economici e commerciali, è una dittatura che promuove terrorismo, mafie e guerre” scandiscono le attiviste del Movimento italo iraniano “Donna Vita Libertà”, unendosi a Narges Mohammadi nel chiedere al governo di Roma, alla Commissione Europea e al Parlamento di Strasburgo di spendersi per fermare le esecuzioni in Iran e liberare Bahareh Hedayat, Sepideh Qolian, Fatemeh Sepehri, tutte le donne e gli uomini arrestati per il loro impegno civile. Citano Gramsci (“L’indifferenza è il peso morto della storia”), ricordano le precarissime condizioni di salute della irriducibile Premio Nobel, mettono in guardia dal sottovalutare la campana che oggi suona per le donne iraniane e domani chissà.

L’Italia, dicono gli attivisti nel nostro Paese, ha un ruolo. Lo spiega Shady Alizaheh, avvocata italo-iraniana: “L’importanza del movimento “Donna, vita, libertà” sta nel fatto di aver elevato i diritti delle donne a diritti umani universali e questo messaggio ha unito allo stesso tempo un popolo in Iran con quattro realtà importanti anche in Italia che hanno sottoscritto il nostro appello, Amnesty International, i sindacati con l’adesione del segretario della CGIL Maurizio Landini, la segretaria del Pd Elly Schlein e la Casa Internazionale delle Donne”.

Resta l’apprensione per la sorte di Narges Mohammadi. “Ha dichiarato che non indosserà mai il velo obbligatorio neppure per avere le cure mediche di cui necessita” racconta l’attivista iraniana e Premio Amnesty per i diritti Parisa Nazari. Non lo indosserà, e troverà il modo di raccontarcelo.