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di Lanfranco Caminiti

Il Dubbio, 28 settembre 2022

È successo nel 1999, nel 2003, nel 2006, nell’onda verde del 2009, nel 2018. E adesso. Sono più di vent’anni che l’Iran è scosso, quasi con frequenza regolare, da proteste di piazza. A volte, sono i “mostazafin”, i più poveri delle classi medie, a scendere in piazza, a volte sono i giovani delle università; a volte si chiede pane, per le condizioni di vita che diventano sempre più difficili, a volte si chiede libertà; a volte è Teheran a protestare, a volte Mashad, che è la seconda città per abitanti, o città di province lontane: l’Isfahan, il Lorestan, l’Hamadan. Stavolta è pane e libertà, stavolta è l’Iran tutto in piazza - oltre cinquanta città sono attraversate dalle proteste, iniziate nel Kurdistan iraniano. Quarantuno già i morti “ufficiali”, settantacinque, secondo le stime al ribasso di organizzazioni per i diritti civili. Il fatto è che le autorità hanno rallentato Internet, bloccato l’accesso a Instagram e WhatsApp, e raccogliere notizie diventa sempre più difficile.

Tutto è cominciato a Teheran. Il 13 settembre, Mahsa Amini, 22 anni, originaria del Rojhelat, il Kurdistan iraniano, stava passeggiando insieme a suo fratello diciassettenne per le strade di Teheran dove si trovava in vacanza con la famiglia. Il nome di battesimo di Mahsa era Jina, un nome curdo; Mahsa era il nome persiano sul suo passaporto in base a leggi pensate per oscurare l’esistenza del suo popolo. All’improvviso, Mahsa viene bloccata e caricata su una camionetta della polizia morale dell’Iran, portata in commissariato dove - così fu detto ai familiari - sarebbe stata sottoposta a un “breve corso sull’hijab”, visto che non lo indossava correttamente, e rilasciata entro un’ora. Invece fu picchiata duramente. Dopo tre giorni di coma, il 16 settembre, Mahsa è morta. Le autorità hanno parlato di malattie pregresse come causa della morte, smentite però dai familiari. Il padre di Mahsa ha dichiarato di non aver potuto vedere il cadavere della figlia né leggere i risultati dell’autopsia: “Ho potuto vedere di sfuggita il viso e i piedi nel momento in cui l’abbiamo seppellita. I piedi erano segnati dalle ferite. Mahsa godeva di ottima salute”. Le autorità avevano fatto pressione affinché la sepoltura avvenisse di notte. Ma non è andata così.

Ritorno a Saqqez, la città dove Mahsa era nata. Il 17 settembre i funerali della ragazza sono sfociati in scontri con la polizia, con un morto e decine di feriti. Le proteste e la repressione si sono poi estese al resto del paese. Il 19 settembre, a Teheran, gli studenti di tre università sono scesi in piazza. Da allora, la protesta non si è più fermata.

Questa storia delle morti di chi finisce nelle mani della polizia, non è certo nuova. Nelle proteste del 2018 furono almeno due: Vahid Heidari ad Arak e Sina Ghanbari a Teheran. Le autorità sostenevano che si fossero suicidati, ma non ci credeva nessuno. ? “Vahid faceva il venditore al bazar di Arak. È stato arrestato per aver partecipato alle proteste contro il carovita”, raccontava lo zio del ragazzo. Secondo la famiglia, ricevettero una telefonata dalla prigione: “Si è suicidato, venite a prendere il corpo”. Poi però non sono stati consegnati ai familiari né il cadavere né il referto del medico legale; e sono stati costretti a seppellirlo in una fossa già preparata. Ma era successo lo stesso nel 2009, quando migliaia di giovani furono imprigionati dopo le manifestazioni del Movimento verde, rinchiusi in centri di detenzione non ufficiali come Kahrizak e sottoposti a torture e violenze sessuali: tre furono uccisi. Anche questa storia delle violenze sessuali non è nuova: nei mesi successivi alla repressione del 2009 si cominciò a parlare di stupri sistematici compiuti dalle forze di sicurezza e da altri detenuti nei confronti di donne e uomini incarcerati per ragioni politiche. “Le guardie carcerarie stanno distribuendo preservativi ai criminali e li stanno incoraggiando a violentare sistematicamente i giovani attivisti che si trovano in carcere con loro”, scrisse nel giugno 2011 il giornalista del “Guardian” Saeed Kamali Dehghan, citando diverse lettere e testimonianze di persone detenute nelle prigioni iraniane.

È una vera ossessione per il regime teocratico iraniano - questa del controllo del corpo delle donne, l’orrore per la libertà dei costumi, sessuale. Da quando è arrivato al potere Ebrahim Raisi, nell’agosto 2021, le autorità sono diventate più severe, imponendo nuove misure per controllare la popolazione. In particolare le donne. Il 5 luglio 2022 Il governo approva una direttiva che impone nuove restrizioni sull’abbigliamento femminile: prevede punizioni per chi usa l’hijab “in modo improprio”, per esempio lasciando uscire ciocche di capelli. È esattamente il motivo per il quale la polizia morale fermò Mahsa Amini. Inoltre stabilisce che il velo deve coprire anche il collo e le spalle e vieta alle dipendenti pubbliche di indossare calze e scarpe con il tacco. Il 12 luglio è istituita la “giornata dell’hijab e della castità”. Il 15 agosto un nuovo decreto impone ulteriori obblighi e punizioni per chi non si conforma al codice di abbigliamento. Il 30 agosto in un’intervista in tv il segretario dell’Organizzazione per la promozione della virtù e per la repressione del vizio annuncia che il governo prevede di usare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Il 5 settembre alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno rivelato che la settimana precedente, nella città di Urmia, sono state condannate a morte due attiviste della comunità lgbt, Zahra Sedighi Hamedani, 31 anni, ed Elham Chubdar, 24, accusate di diffondere “corruzione sulla Terra”.

La corruzione sulla Terra - questo sono le donne per il regime iraniano. È dal 1979 dalla rivoluzione di Khomeini che le donne non possono cantare in pubblico - questo spiega anche la moltiplicazione dei video diffuse sui social, come forma di protesta. Come il gesto, praticato in questi giorni da decine e decine di ragazze, spesso in pubblico, di tagliarsi i capelli - un rito di lutto, praticato ancora in alcune province, proprio come accadde durante i funerali di Mahsa, e ora diventata una forma di protesta. “Jin Jiyan Azadî” (che in persiano diventa “zan zandegi azadi”), “Donna, vita, libertà” - è questo lo slogan di questi giorni.

Nel nome delle donne. Neda Agha- Soltan aveva 26 anni. Nel giugno 2009 partecipava alle proteste dell’onda verde. Neda fu uccisa da un cecchino delle forze di sicurezza iraniane mentre andava a una delle tante manifestazioni che si stavano tenendo per protestare contro i presunti brogli elettorali che avevano permesso la vittoria alle elezioni presidenziali del conservatore Mahmud Ahmadinejad contro il riformista Hossein Mousavi. Circolò subito un video che durava meno di 40 secondi: si vedeva una giovane donna gravemente ferita, in strada, circondata da alcuni uomini che tentavano di prestarle soccorso. La donna guardava verso il cellulare che stava filmando, con gli occhi spalancati, prima di cominciare a perdere molto sangue dalle orecchie e dal naso, e morire. Si chiamava Neda.

Narges Hosseini: nel 2018, salì su un muretto durante le proteste di piazza, si tolse il velo e lo appese a uno stecco, come a farne una bandiera. La foto fece immediatamente il giro del mondo. Venne arrestata.

L’accusa era (articolo 638 del Codice penale islamico) di avere “commesso apertamente un atto peccaminoso e aver violato la pubblica moralità” e di avere così (articolo 639) “incoraggiato l’immoralità e la prostituzione”. Rischiava fino a dieci anni di carcere, gliene diedero otto, ne scontò cinque. Oggi è di nuovo in prima fila nelle proteste, di nuovo arrestata.

Hadis Najafi, uccisa da sei proiettili della polizia. Sembrava fosse lei la “ragazza con la coda”, che si vedeva in un video raccogliere i capelli con un elastico e poi andare a unirsi ai manifestanti. Invece, la “ragazza con la coda” è viva, è apparsa in un video della BBC per dire: “Non sono Hadis Najafi, ma combatto per tutte le Hadis e le Mahsa. Non abbiamo paura che ci uccidiate”.

Molti commentatori e conoscitori dell’Iran invitano alla cautela - la repressione sarà durissima, il regime è ancora forte. Noi speriamo che abbia ragione Tara Sepehri Far, ricercatrice di Human Rights Watch: “Le donne si sono tolte il velo e hanno camminato per strada. Non si può tornare indietro”.