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La Repubblica, 7 dicembre 2022

Mentre continuano le proteste, Amnesty International denuncia come un inganno lo scioglimento della polizia morale. La Guida Suprema Khamenei: “Ricostruire l’assetto culturale del Paese”. Annunciata la condanna a morte di 5 persone accusate di aver ucciso una guardia rivoluzionaria.

Ancora una giornata di proteste in piazza: gli iraniani continuano a sfidare il regime e le sue incerte aperture. Lo sciopero generale, l’ultima evoluzione di una rivolta sempre più tenace, ha paralizzato il Paese soprattutto tra le comunità curde. Ma anche a Teheran, sebbene il Grand Bazaar sia rimasto aperto, molti negozi hanno tenuto le saracinesche abbassate in segno di protesta.

Migliaia di persone sono scese anche oggi in piazza sventolando le bandiere. La decisione del regime di abolire la polizia morale, annunciata sabato nel corso di una conferenza stampa dal procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri, non ha ottenuto l’effetto di smorzare la ribellione perché i giovani, il popolo che sostiene la protesta e la maggior parte dei commentatori la ritengono un inganno. Il giorno precedente Montazeri aveva affermato che le leggi sull’uso dell’hijab erano in fase di revisione, senza alcun chiarimento su cosa volesse dire concretamente. “Le parole del procuratore generale sono state volutamente vaghe e non hanno fatto riferimento all’infrastruttura giuridica e politica che mantiene in vigore l’obbligo d’indossare il velo”, dice Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medioriente e l’Africa del Nord.

“Il potere giudiziario continuerà a occuparsi del comportamento della popolazione nella società”, aveva detto Montazeri lasciando intendere che il controllo del corpo delle donne, attraverso le norme sul velo obbligatorio, sarebbe proseguito. “La comunità internazionale e i mezzi d’informazione non devono permettere alle autorità iraniane di gettar loro fumo negli occhi. L’obbligo d’indossare il velo è incastonato nel codice penale, in leggi e regolamenti che consentono di arrestare donne e ragazze e negare loro l’accesso a luoghi pubblici come ospedali, scuole, uffici governativi e aeroporti se non si coprono il capo. Fino a quando queste norme non verranno abolite, la stessa violenza che è costata la morte a Mahsa Amini potrà abbattersi su milioni di altre donne e ragazze”, dice Morayef.

Secondo Hossein Jalali, membro del Consiglio islamico e della Commissione culturale, le donne che non indossano l’hijab invece di essere affrontate dalle “pattuglie della polizia morale” saranno avvisate con un Sms, e se non riprenderanno a indossarlo si passerà alle punizioni: “Non ci sarà alcun ritiro dal piano di uso dell’hijab perché significherebbe il ritiro della Repubblica islamica”, ha spiegato. A cambiare, sembra annunciare, saranno metodi e procedure per la repressione delle donne che osino dismettere il velo, non le regole che lo impongono: anzi, secondo il quotidiano riformista Shargh lo stesso Hossein Jalali ha annunciato che saranno bloccati i conti bancari delle donne che non porteranno il velo.

Il braccio di ferro tra il potere e il popolo è insomma sempre più duro: le dimostrazioni anti-governative continuano e lunedì notte in varie città iraniane sono continuate le manifestazioni. Quelle pacifiche, con gruppi di donne e uomini che urlano slogan contro la Guida suprema Ali Khamenei; ma anche quelle dei manifestanti che appiccano il fuoco con bottiglie molotov lanciate contro edifici, come mostrano i video pubblicati sui social media.

La risposta del governo e della magistratura è durissima: le autorità ieri hanno annunciato di aver condannato a morte cinque persone con l’accusa di aver ucciso un membro di una forza paramilitare affiliata alla Guardia rivoluzionaria islamica iraniana. Ad altri undici sono state comminate pene detentive. Si tratta di 13 uomini e tre minorenni accusati dell’uccisione di Ruhollah Ajamian, un membro del Basij, cioè i volontari della Guardia Rivoluzionaria d’élite iraniana. Una condanna per un delitto di cui non sono state rese note le prove e che sarebbe stato commesso a Karaj, vicino a Teheran, il 12 novembre: un gruppo di uomini ha inseguito e attaccato Ajamian con coltelli e pietre, sostiene il rapporto della magistratura riferendosi ai “rivoltosi”, un termine comunemente usato dal governo per indicare i manifestanti e le manifestazioni antigovernative. Ma si tratta pur sempre di una condanna per omicidio, non per colpire una protesta, e l’Iran è uno dei Paesi che ricorrono più frequentemente alla pena capitale: secondo Amnesty International, il regime di Teheran ha giustiziato almeno 314 persone nel 2021, ben prima che iniziassero le proteste. La scorsa settimana le autorità iraniane hanno giustiziato quattro persone accusate, senza rendere nota alcuna prova, di lavorare per il Mossad.

Mentre non si spengono gli appelli per la caduta del regime teocratico, le repressioni continuano comunque a essere violente. L’Iran accusa la comunità internazionale di fomentare le proteste, e secondo Human Rights Activists in Iran almeno 473 persone sono state uccise e altre 18.200 arrestate nelle manifestazioni e nella repressione.

L’ultima escalation delle proteste era lo sciopero indetto chiedendo alle imprese di chiudere e ai civili di non utilizzare le banche. Nei quartieri a nord di Teheran la maggior parte dei negozi oggi è rimasta chiusa, mentre le forze di sicurezza presidiavano le strade. Il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Mohseni Ejehi, ha ordinato l’arresto di chiunque incoraggi lo sciopero o cerchi di intimidire i negozi affinché chiudano.

Intanto il governo iraniano insiste nell’accusare gli Usa di incitare le proteste: “Gli americani vogliono il petrolio, l’energia dell’Iran, ed è per questo che hanno lanciato la campagna. Ciò che viene detto dai media non corrisponde alla verità”, ha detto ai giornalisti Hossein Amir-Abdollahian, il capo della diplomazia iraniana sostenendo che nessuno sia morto negli scontri seguiti alla morte, a metà settembre, della 22enne curda Mahsa Amini. Secondo Amir-Abdollahian, invece, a morire per le proteste innescate da “i terroristi statunitensi” sono stati 67 agenti di polizia.

Il regime continua a essere indecifrabile. La stessa guida suprema, l’ayatollah Khamenei, oggi ha evocato l’esigenza di una “ricostruzione rivoluzionaria dell’assetto culturale del Paese”, qualunque cosa questo possa voler dire. Tutto e niente, appunto: “Il Consiglio supremo - dice Khamenei - dovrebbe porre attenzione alla debolezza culturale esistente in diverse aree del nostro Paese”.