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di Chiara Cruciati*

Il Manifesto, 25 ottobre 2022

Scuole e università epicentro della protesta in Iran. 315 incriminati, in quattro rischiano la vita. Per reagire alla repressione, il movimento si struttura: presidi fissi e azioni brevi.

Trentotto giorni di rivolta, 198 città coinvolte. E il movimento si struttura: acefalo e fluido, alle grandi marce delle prime settimane - quando era la forza dei numeri a respingere camionette della polizia e agenti antisommossa - ha sostituito azioni brevi, rapide, di piccoli gruppi che evitino così arresti di massa. Una pratica che si unisce a presidi ormai fissi: le università e le scuole.

Le immagini che giungono da campus e istituti di diverse città - da Teheran a Isfahan - raccontano di folle di giovani, braccia alzate e slogan (su tutti “Jin, Jiyan, Azadi”, in curdo “donna, vita, libertà”), di ragazze che fanno irruzione nella mensa maschile all’Università Sharif a Teheran contro la segregazione di genere e mangiano con i ragazzi in giardino, di genitori che presidiano gli ingressi delle scuole per impedire l’accesso dei paramilitari, i Basij, responsabili di pestaggi, omicidi e sparizioni forzate.

E di professori in sciopero domenica e di nuovo ieri, con la partecipazione maggiore in Kurdistan e Azerbaigian occidentale. Iranwire ieri riportava della condanna a cinque anni per tre insegnanti impegnati nel sindacato, mentre l’ong statunitense Committee to Protect Journalists denuncia l’arresto di 44 giornalisti iraniani tra i circa 12.500 detenuti dall’inizio della protesta. C’è anche la giovane italiana Alessia Piperno: domenica il neo ministro degli esteri italiano Tajani ha parlato con il padre: “Sto seguendo con il massimo impegno e con grande determinazione il caso”.

Alle proteste in piazza e nelle classi si aggiungono le prese di posizione di un numero crescente di categorie: domenica 130 medici hanno chiesto “la fine delle violenze, specialmente verso bambini e adolescenti” e l’accesso a cure mediche per tutti i feriti senza che temano che un ingresso in ospedale si traduca in arresto. Lo stesso hanno fatto 300 dentisti e oltre 600 intellettuali, tra artisti e scrittori, che chiedono l’immediato rilascio dei colleghi arrestati.

Ma la repressione non accenna a spegnersi: ieri il procuratore di Teheran, Ali Salehi, ha annunciato l’incriminazione di 315 persone per “collusione contro la sicurezza dello stato”, “propaganda contro il sistema” e “disturbo dell’ordine pubblico”. Quattro di loro rischiano la pena di morte per il reato di moharebeh, offesa contro l’islam e lo stato, per aver “terrorizzato la società, ferito poliziotti, distrutto proprietà pubbliche con l’intento di combattere il sacro sistema della Repubblica islamica”.

Un paradigma che iraniane e iraniani sfidano da un mese. Come A. N.: “Ho 23 anni e studio all’università - dice al manifesto - Porto il velo per mia scelta ma credo che ognuna debba essere libera di scegliere per sé, di vestirsi come vuole. Il velo è diventato un simbolo di controllo. Noi donne siamo vittime di regole che non hanno fondamenti religiosi, un’interpretazione di potere che vuole solo controllarci. Vado a manifestare per i valori di libertà e giustizia, per le ragazze e i ragazzi che hanno perso la vita ingiustamente, per me, le mie sorelle, le mie amiche, per le donne”. La rivolta iraniana ha assunto i chiari tratti di una mobilitazione femminista, intesa non solo come rivendicazione di giustizia di genere ma come spinta verso una reale giustizia sociale che investa l’intero paese e ne sovverta il sistema di dominio. In piazza, per questo, ci sono anche gli uomini. S. D. è uno di loro. Ha 50 anni e gestisce un’azienda di 12 dipendenti. Racconta della madre single e della sua intolleranza verso il velo, delle battaglie quotidiane per vedersi riconosciuta nel proprio agire politico e sociale, sul posto di lavoro - da impiegata, dopo la laurea - e negli uffici pubblici.

“Mia madre mi parlava di un’ingiustizia secolare che mantiene le donne sottoposte agli uomini, un dominio affermato con l’obbligo a coprirsi la testa. Mi ha raccontato dei soprusi subiti solo perché era una donna. Se non avesse problemi di salute, oggi sarebbe al fianco di questi ragazzi. Allora vado io per lei e per mia figlia di 20 anni che è in strada dal primo giorno dopo l’uccisione di Mahsa Amini. Vado per le donne e gli uomini che hanno sofferto perché hanno un’idea diversa da quella dominante”.

“Non voglio un paese in cui c’è discriminazione di genere, in cui l’obbedienza è l’unica via di sopravvivenza. Appartengo a una religione colma di generosità e pace: non intendo lasciare questi valori a una manciata di corrotti. Questo è solo l’inizio”.

*Con la collaborazione di Francesca Luci