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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 15 settembre 2023

I regimi, ci ha insegnato Liliana Segre, contano sulla nostra indifferenza. A noi il compito di non dimenticare le storie delle ragazze, cadute sotto i colpi dei bastoni. Quelle dei giovani impiccati alle gru gialle. Quelle di chi è stato costretto all’esilio professionale.

Il 16 settembre 2022 moriva Mahsa Jina Amini, una ragazza poco più che ventenne, nata a Saqqez, nelle regioni del Kurdistan iraniano. Era stata arrestata da cinque agenti della polizia morale a una fermata del metrò di Teheran, accusata di indossare il velo “impropriamente”, caricata su uno dei camioncini bianchi che girano per la città, portata in caserma, picchiata fino a perdere coscienza. Dopo due giorni in coma, Mahsa aveva smesso di respirare. Ed è a quel punto che è successo qualcosa di straordinario, qualcosa che ha cambiato la storia della Repubblica islamica a 44 anni dalla sua fondazione, nel 1979. Una giornalista ha fotografato la ragazza in agonia attaccata alle macchine e, poco dopo la comunicazione del decesso, i genitori abbracciati nel corridoio dell’ospedale.

Il suo nome è Niloofar Hamedi, ha 30 anni, e si è sempre occupata di diritti, di calcio (denunciando la chiusura degli stadi al pubblico femminile), di ambiente. “Il nero del lutto è diventata la nostra bandiera nazionale”, ha scritto postando le immagini di una storia che poteva spegnersi nel silenzio come tante altre. Una seconda giornalista, Elaheh Mohhamadi, 35 anni, è andata nel villaggio curdo a raccontare i funerali della giovane Mahsa tra la sua gente: è stata lei a usare per prima quelle tre parole che sono diventate una chiamata alla sollevazione nazionale. “Zan, Zendegi, Azadi”. Donne, Vita, Libertà. È cominciata così la controrivoluzione delle donne iraniane che hanno trascinato con sé - nelle strade, nelle case - tre generazioni di uomini. I padri, i compagni, i fratelli minori. (continua a leggere dopo la foto e i link)

Un anno dopo, la tomba di Mahsa Jina Amini è stata profanata e il suo giovane zio, Safa Aeli, trentenne fratello della madre, è “sparito” dopo essere stato prelevato dalle forze di sicurezza. Le due reporter si trovano invece in un carcere purtroppo noto, quello di Evin, nella capitale, dove sono stati rinchiusi migliaia e migliaia di “nemici” del regime. Hanno entrambe subito un processo e una condanna senza senso, respingendo sempre le accuse e invocando inutilmente il proprio diritto a difendersi. È finita così la speranza di un movimento che avrebbe dovuto cambiare l’Iran, abbattere gli argini dell’apartheid di genere, avvicinare città e campagne, colmare le distanze sociali tra la maggioranza e le minoranze etnico-religiose? Nei cortei, si alzava uno slogan che nessuno aveva mai sentito: “Da Zahedan a Teheran, siamo un solo Iran”. Lungo i viali, si vedevano i primi manifesti e cartelli arcobaleno. Dalle finestre alte delle case, nelle notti metropolitane, si univano voci anonime che auguravano “morte al dittatore”.

Tra le tante immagini arrivate a noi in questi anni dal fronte delle proteste che a ondate hanno attraversato la Repubblica islamica, ce n’è una scattata nel 2009 da Pietro Masturzo, vincitore al World Press Photo, alla quale resta aggrappato lo sguardo. Si intitola Sui tetti di Teheran. Si distinguono tre donne tra le luci basse della sera. Una vestita di nero, con il foulard, è seduta con le mani in grembo. Un’altra, al centro dell’inquadratura, ha il velo nero appoggiato sulle spalle e, sotto, un abito bianco: ha le mani ai lati della bocca, sta gridando. Una terza, tra loro, è una figura sfuocata perché è corsa dall’una all’altra: è più piccola, forse la più giovane ed è in movimento. Quel movimento è ancora lì. Le donne, e gli uomini con loro, stanno sempre correndo. Il regime le teme, teme l’anniversario. Arresta i familiari delle vittime, presidia le università e i cimiteri, mette a tacere gli intellettuali e gli artisti. Come Saeed Roustaee, il regista di Leila e i suoi fratelli, film che rende omaggio a tutte le sorelle.

A noi, in questo settembre 2023, il compito di non dimenticare, come chiede Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran. Non dimenticare le storie delle ragazze, cadute teenager sotto i colpi dei bastoni. Quelle dei giovani impiccati alle gru gialle. Quelle degli sportivi, delle attrici e degli artisti costretti all’esilio professionale. I regimi, come ci ha insegnato Liliana Segre, contano sulla nostra indifferenza.