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di Simona Musco

Il Dubbio, 16 settembre 2023

La 22enne fu ammazzata di botte dalla polizia morale di Teheran per non aver indossato a dovere il velo. Una ciocca di capelli fuori dal velo. Tanto è bastato alla polizia morale di Teheran per dimostrare tutto il proprio fanatismo, arrestando e riempiendo di botte una giovane donna curdo- iraniana, Mahsa Amini, fino a farla morire. Una morte che ha rappresentato l’inizio di una rivolta che ha cambiato il volto dell’Iran, sceso in piazza al giro di “Donna, vita, libertà” per spezzare le catene. Mahsa avrebbe compiuto 22 anni il 21 settembre, ma il destino - suo e dell’intero Paese - le è piombato addosso il 13 settembre 2022, quando si trovava con i genitori a Teheran. La giovane donna è stata fermata a un posto di blocco, all’ingresso dell’autostrada Haqqani, dalle “Guidance Patrol”, la famigerata polizia morale custode della Sharia. La sua colpa: indossare l’hijab, il velo islamico, in maniera “non appropriata”, per via di quella ciocca di capelli che sfuggiva al tessuto. Mahsa è stata così arrestata - per un “ripasso di moralità” - e picchiata durante il tragitto in carcere, tanto da rendere necessario il ricovero in ospedale. Ma lì ci è arrivata in stato di morte cerebrale, fino alla morte, esattamente un anno fa, il 16 settembre, dopo tre giorni in terapia intensiva nell’ospedale di Kasra.

“L’hanno trascinata via dicendo che la portavano a fare una “lezione di moralità” - aveva raccontato al Corriere della Sera Kiarash Amini, fratello della giovane - intanto io ho avvisato i miei genitori. E siamo andati davanti al commissariato della polizia morale a Vozara. Lì davanti ci hanno detto che l’avrebbero rilasciata in poche ore. E invece…”. E invece Mahsa è finita in ospedale, da dove è uscita cadavere. La polizia ha negato ogni responsabilità, sostenendo che ad ucciderla è stato un problema cardiaco, nel chiaro tentativo di insabbiare la vicenda. Ma la situazione era già sfuggita di mano, complice anche il post pubblicato su Instagram il giorno della morte della 22enne dalla clinica dove si trovava ricoverata, che attestava che la giovane era arrivata in ospedale già in stato di morte cerebrale. E diversi medici dichiararono la presenza di una lesione cerebrale, tra cui sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi, con fratture ossee, emorragia ed edema cerebrale.

“Mi hanno fatto vedere il suo corpo, aveva lividi sul volto - aveva spiegato il fratello - ma non mi hanno permesso di fotografarlo, chissà come mai. Poi due giorni dopo la polizia della moralità ha detto che mia sorella era morta a causa di un infarto. Ma lei era sana, completamente sana e non soffriva di cuore”. Le autorità hanno continuato a nascondere la verità, con un’autopsia farsa eseguita dall’Organizzazione di medicina legale di Teheran: secondo il rapporto, a provocare la morte di Mahsa sarebbe stata una “insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale”, causata da un’improvvisa perdita di conoscenza con “caduta a terra”.

Il funerale, celebrato due giorni dopo, ha dato il via all’ondata di protesta che ha travolto l’Iran: le donne presenti hanno tolto il velo, intonando per la prima volta inno della rivolta, quel “Donna, vita e libertà” diventato simbolo di lotta in tutto il mondo. In strada sono scese donne di ogni età, ma anche uomini, tutti pronti a sfidare l’autorità dell’Ayatollah Ali Khamenei, al grido “Morte al dittatore”. Una protesta che ha fatto il giro del mondo e che ha spinto molte donne a filmarsi nell’atto di tagliare simbolicamente una ciocca di capelli, per dichiarare solidarietà ma anche la propria sfida alle autorità iraniane. La cui risposta è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. Tra loro Hadis Najafi, 23 anni, uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto, al viso; Hananeh Kia, 23 anni, colpita da un proiettile; e Ghazale Chelavi, 32 anni. A finire nelle mani del regime anche diversi minorenni. E sono stati migliaia di arresti illegali - oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione: a oggi, sono sette le persone per le quali è stata eseguita la condanna a morte. Tra le persone finite in carcere anche lo zio di Mahsa e l’avvocato della famiglia, Saleh Nikbakht, accusato di “propaganda” per le interviste rilasciate ai media stranieri sul caso.

A un anno da quegli eventi, le donne in Iran sono ancora sotto minaccia: il Consiglio dei guardiani della Costituzione - un organismo composto di soli uomini - sta infatti esaminando un nuovo disegno di legge per punire le donne che non indossano il velo, con il carcere fino a 10 anni. Prevista, inoltre, la chiusura dei negozi che accettano clienti che non indossano il velo. Al momento, l’articolo 638 del codice penale islamico iraniano punisce qualsiasi atto ritenuto “offensivo” per la pubblica decenza con la reclusione da dieci giorni a due mesi o 74 frustate. Insomma, un inasprimento abnorme, rispetto ad una legge già inaccettabile, che rappresenta un vero e proprio “gender apartheid”, secondo ll’Onu e alcune organizzazioni non governative come Human rights watch.

Le autorità iraniane sono ora preoccupate dai possibili disordini che potrebbero accompagnare le proteste di oggi, anniversario di quella morte assurda. E la macchina della repressione non ha mai smesso di lavorare: in alcune città come Saqqez, dove viveva Mahsa Amini, aumentano i checkpoint di polizia per controllare l’abbigliamento delle donne e l’attenzione per le manifestazioni attese oggi. Ma in Iran “c’è una maggiore adesione alle proteste e una maggiore coesione tra la popolazione”, ha detto all’Adnkronos Ghazal Afshar, portavoce dell’Associazione Giovani Iraniani in Italia, con “giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri” che “non ne possono più del regime teocratico assassino che è il loro vero nemico. Da fonti interne sappiamo che il regime ha schierato 15mila uomini dei Pasdaran e delle forze paramilitari Basij nelle università sotto copertura, come studenti o professori, per monitorare la situazione”. E “il regime sta cercando di tutelarsi aumentando la repressione interna e il numero di pattuglie per le strade”. Ma anche “inviando agenti nelle zone maggiormente interessate dalle proteste” e “trasferendo numerosi prigionieri politici dal carcere di Evin”.