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di Enrico Franceschini

La Repubblica, 20 marzo 2023

Il 15 febbraio milioni di persone marciarono per chiedere ai governanti di scongiurare il conflitto che incombeva. Solo alcuni governi condivisero le istanze dei manifestanti. Qualcuno lo ricorda come il giorno in cui il mondo disse no alla guerra. Un’esagerazione, perché naturalmente non tutto il pianeta scese in piazza in nome della pace: ma il 15 febbraio di venti anni fa si svolsero in decine di Paesi enormi manifestazioni di protesta contro il conflitto che minacciava di scoppiare e che ebbe poi inizio, nonostante l’opposizione di milioni di dimostranti, poco più di un mese dopo. Oggi, nel ventesimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, quelle marce vengono ricordate come il momento più vitale per il movimento pacifista internazionale dal tempo della guerra del Vietnam in poi. Cosa rappresentarono esattamente? Come divisero l’Europa? E che eredità hanno lasciato al pacifismo, mentre sul fronte europeo infuria la guerra in Ucraina?

Quanti erano i manifestanti - Le cifre sono discordanti, come quasi sempre in questi casi perché per manifestare non c’è bisogno di acquistare un biglietto o registrarsi da qualche parte, ma è certo che il 15 febbraio 2003 vede una protesta senza precedenti per numero di partecipanti e per nazioni coinvolte. Secondo la Bbc, tra 6 e 10 milioni di persone prendono parte alle manifestazioni contro la guerra in Iraq in almeno sessanta Paesi. Secondo gli organizzatori, le marce vedono addirittura 110 milioni di dimostranti sfilare nelle strade di ottanta nazioni. Per il Guinness Book of World Records, il Libro dei Primati, la manifestazione di Roma raccoglie da sola tre milioni di oppositori della guerra, diventando così il più grande raduno pacifista della storia, seguito al secondo posto dalla dimostrazione che ha luogo a Madrid nello stesso giorno con un milione e mezzo di persone. Per altri resoconti, la manifestazione più grande è stata invece a Londra, con un milione di partecipanti.

In quali paesi manifestarono - Ci sono marce in Austria, di circa 30 mila manifestanti, in Slovenia (3 mila), in Belgio (100 mila), in Olanda (70 mila), in Bosnia (100 persone), in Croazia (10 mila), a Cipro (500), nella Repubblica Ceca (1000), in Francia (tra 100 mila e 200 mila a seconda delle stime), in Germania (tra 300 mila e 500 mila), in Grecia (150 mila), in Ungheria (60 mila), in Irlanda (90 mila), in Italia (650 mila per la polizia, 3 milioni per i promotori), in Norvegia (60 mila), in Danimarca (30 mila), in Svezia (35 mila), in Polonia (10 mila), in Portogallo (35 mila), in Russia (400), in Serbia (200), in Slovacchia (1000), in Spagna (tra 660 mila e 2 milioni), in Ucraina (2 mila), nel Regno Unito (tra 750 mila e un milione), in Canada (100 mila), negli Stati Uniti (100 mila manifestanti a New York, altrettanti a San Francisco, Los Angeles e in altre città), in Messico (10 mila), in Argentina (50 mila), in Israele (2 mila), in Sud Africa (10 mila), in Australia (150 mila), in Nuova Zelanda (10 mila) e su scala minore in altri Paesi. Praticamente in tutto il mondo democratico, i pacifisti agitano bandiere e gridano slogan contro l’invasione. “Le manifestazioni contro la guerra di questo fine settimana - scrive il New York Times - ci dicono che sulla Terra potrebbero essere rimaste due superpotenze: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”.

Come si divisero i governi occidentali - Una particolarità di quella grande giornata di protesta contro la guerra è che in alcuni paesi l’opposizione all’invasione viene condivisa dal governo, in altri no. L’Europa dei governanti esce infatti spaccata dal conflitto. Nel Regno Unito, il premier laburista Tony Blair dà il suo pieno appoggio al presidente repubblicano George Bush, con la controversa decisione di inviare truppe britanniche in Iraq accanto a quelle americane. Anche la Polonia partecipa attivamente alla forza di invasione, al di fuori della Ue l’Australia invia un distaccamento di suoi soldati a combattere. Un appoggio in un primo tempo soltanto politico, con assistenza militare e disponibilità all’uso di basi, arriva in diversa misura da Spagna, Italia, Olanda, Danimarca e Kuwait. Dal mese di luglio del 2003, terminata l’invasione, il nostro Paese invia carabinieri e truppe speciali a sostegno del rafforzamento della pace, subendo nel corso del tempo decine di perdite in quella che fu chiamata Operazione Antica Babilonia: 18 vittime nell’attentato della base di Nassirya, due decine di morti in altri attacchi, incidenti e attentati fino al 2006. In Europa, la Germania e la Francia rimangono schierate con fermezza contro la guerra. Il cancelliere tedesco socialdemocratico Gerard Schroeder afferma senza mezzi termini, schierandosi con i pacifisti: “Il Medio Oriente ha bisogno ha bisogno di pace, non di guerra. Sotto la mia guida, la Germania non parteciperà ad azioni di guerra contro l’Iraq”. Parole profetiche vengono pronunciate dal suo ministro degli Esteri, il leader dei Verdi tedeschi Joschka Fischer: “Riteniamo altamente rischioso e dagli effetti imprevedibili il tentativo di rovesciare il regime di Saddam Hussein con mezzi militari. Ho un forte timore che mosse non abbastanza meditate possano portare non a più sicurezza in Medio Oriente, ma al suo contrario. Ciò condurrebbe a un nuovo ordine nella regione, di cui gli Usa dovrebbero assumersi la responsabilità per anni se non decenni. La preoccupazione principale è che i conflitti regionali mediorientali possano saldarsi con il terrorismo internazionale”. La guerra civile in Siria, l’ascesa del terrorismo con l’Isis, l’espansione dell’influenza dell’Iran a Damasco e a Beirut, sono soltanto tre degli sviluppi che hanno confermato i timori di Fischer.

Il summit di chi voleva la guerra - Le marce per la pace non si esauriscono nella giornata del 15 febbraio, ma proseguono fino alla vigilia della guerra. Un’altra giornata campale di dimostrazioni pacifiste è il 15 marzo, in coincidenza del vertice alle isole Azzorre tra il presidente americano Bush, il premier britannico Blair e il primo ministro spagnolo Aznar, i tre leader occidentali più favorevoli all’invasione, che si incontrano per coordinare le strategie diplomatiche e militari in vista di una nuova risoluzione discussa all’Onu per lanciare un ultimatum di disarmo all’Iraq. “No alla guerra di Bush” è il grido che risuona contro il summit nelle piazze d’Occidente.

Chi erano i pacifisti - In occasione delle proteste per fermare l’invasione si vede emergere una coalizione che unisce forze profondamente differenti: gruppi politici di estrema sinistra, partiti della sinistra tradizionale e sindacati, movimenti religiosi cattolici. Preti e suore marciano al fianco di giovani con la kefya palestinese in testa e di altri che sventolano bandiere rosse. E’ una coalizione variegata, normalmente su posizioni distanti su altre questioni, ma che sul pacifismo, in particolare riguardo alla guerra in Iraq, rimane compatto sino alla fine. Un’alleanza per la pace differente da quella che negli anni Settanta marciava contro la guerra in Vietnam e che tornerà in seguito a unirsi rispetto ad altri conflitti futuri.

Le differenze con il pacifismo di oggi - Anche davanti alla guerra in Ucraina si tengono manifestazioni pacifiste in molti paesi occidentali. Pur senza raggiungere i numeri delle marce contro l’invasione dell’Iraq, anche queste rappresentano una parte considerevole dell’opinione pubblica occidentale. Ma appaiono anche profonde differenze fra le due guerre, come sottolineato dal convegno del febbraio scorso a Roma intitolato “Disertare la terza guerra mondiale”.

Come ha detto nel suo intervento Chris Nincham, portavoce di Stop the War Coaltion: “Allora il movimento pacifista si trovò in connessione con la maggioranza della popolazione mondiale, proponendo un’analisi condivisa della realtà e un chiaro rifiuto della guerra. Un contesto molto diverso da quello attuale in cui l’analisi sulla guerra in Ucraina produce pareri contraddittori e comunque non c’è la coscienza che l’Occidente stia perseguendo una politica di guerra spacciata per lotta di liberazione”.

Una critica che è stata mossa ai pacifisti odierni è che le loro dimostrazioni rischiano di apparire talvolta come un sostegno implicito alla Russia o venire strumentalizzate per diminuire o interrompere gli aiuti occidentali all’Ucraina. Un’altra critica emersa anche in passato nei confronti dei movimenti pacifisti è che le manifestazioni raccoglievano un sostegno di massa quando si trattava di attaccare l’America, vista come baluardo imperialista, molto meno o per nulla verso l’Unione Sovietica o il suo erede legale, la Russia.