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di Tania Groppi

La Stampa, 3 gennaio 2024

Ci sono giudici a Gerusalemme. L’anno 2024, un anno pieno di incognite per la pace e la democrazia, come ci ha ricordato nel suo denso e accorato discorso del 31 dicembre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si apre con una notizia che arriva, proprio il 1° gennaio, dal Medio Oriente martoriato. Per una volta, non è una notizia di guerra. È di una sentenza che si parla, una sentenza della più alta corte di Israele, la Corte suprema che, convocata eccezionalmente nella solenne composizione di 15 giudici, ha annullato la legge fondamentale (una sorta di legge costituzionale), fortemente voluta dal governo Netanyahu, che sottraeva al potere giudiziario la possibilità di annullare gli atti del governo per “irragionevolezza”. Detta così, sembra una questione minimale, imbevuta di “giuridichese”. In realtà, la legge approvata il 24 luglio 2023 dalla Knesset, il parlamento unicamerale controllato dalla coalizione di governo, di cui fanno parte partiti della destra più estrema, costituiva il primo tassello di un progetto molto più ampio di svuotamento del sistema dei “checks and balances”.

Gli altri elementi erano la modifica delle norme sulla nomina dei giudici, che avrebbe consegnato al governo il controllo del comitato che seleziona i magistrati; la sottrazione delle leggi fondamentali - che in Israele (paese sprovvisto di una costituzione in senso proprio) hanno il carattere di leggi costituzionali - al sindacato di costituzionalità; l’introduzione di un quorum qualificato (pari all’80% per cento dei suoi componenti) affinché la Corte suprema potesse dichiarare l’incostituzionalità delle leggi; la possibilità per la Knesset di superare a maggioranza semplice qualsiasi decisione giudiziaria. Contro queste norme le componenti democratiche della politica e della società israeliana si sono battute con tenacia, dando luogo a grandi manifestazioni popolari che per dieci mesi, sabato dopo sabato, hanno riempito le piazze e le strade di Israele.

Un movimento di mobilitazione mai visto prima in Occidente, benché negli ultimi anni i casi di “regressioni democratiche”, portati avanti a colpi di revisioni costituzionali o legislative dalle maggioranze politiche siano diventati piuttosto frequenti, anche in democrazie fino a ieri considerate “stabilizzate”. Un movimento in cui gli studiosi sono riusciti a far comprendere alla gente l’importanza di strumenti apparentemente distanti dalla vita delle persone, come il “rule of law”, la separazione dei poteri, l’indipendenza del potere giudiziario, la giustizia costituzionale, dando vita a un grande processo di “pedagogia costituzionale”.

È soltanto tenendo conto di questo contesto che si può comprendere una decisione come quella del 1° gennaio. Con essa la Corte, con un’ampia maggioranza, di 13 giudici su 15, stabilisce per la prima volta che anche le leggi fondamentali possono essere sottoposte al controllo di costituzionalità, qualora violino i principi supremi, ovvero quei principi non scritti derivanti dal carattere di “Stato ebraico e democratico” di Israele, secondo la formula prevista dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948.

Inoltre, la legge fondamentale che sottraeva al controllo di ragionevolezza gli atti del governo, rendendone assai più difficile il sindacato da parte dei giudici, viene dichiarata incostituzionale perché ritenuta in contrasto con tali principi supremi, benché con una maggioranza più ristretta, di 8 a 7. In questo modo, il primo tassello del pacchetto Netanyahu è smantellato, grazie a una decisione che già in queste prime ore gli studiosi israeliani definiscono come una “autodifesa” della democrazia costituzionale di fronte a un attacco estremo. Tutto ciò in mezzo a una guerra drammatica, una guerra di cui la Corte suprema si mostra pienamente consapevole, al punto da dire, con le parole della sua presidente, la giudice Hayut, che “anche in questo difficile momento la Corte deve svolgere il suo ruolo, tanto più quando vengono in gioco questioni relative al nucleo essenziale dell’identità di Israele”.

Anzi. Come scrive il giudice Amit, è proprio in questo momento che Israele ha bisogno di rafforzare la democrazia: ma l’emendamento che elimina il controllo di ragionevolezza “va nella direzione opposta, e rafforza ulteriormente il potere dell’esecutivo”. Per una volta, non è “guerra”, ma “democrazia” la parola che ci giunge dal Medio Oriente, da Israele, in questo inizio di 2024. Una parola che ci arriva da una Corte, da quindici giudici. Che ci ricordano che la democrazia va difesa sempre, anche in tempo di guerra, anche in tempo di emergenza, e non ci sono scuse. Che la democrazia è ben più del governo della maggioranza: essa non può che essere democrazia costituzionale. Che ciò implica limiti e controlli, pesi e contrappesi, senza i quali non si ha democrazia, ma tirannia della maggioranza. E che i giudici sono chiamati a vigilare su tale nucleo inderogabile di principi, anche laddove, come è accaduto in Israele, il legislatore costituzionale abbia perso la bussola. Quindici giudici che, nelle loro diverse opinioni, che si sviluppano per 738 pagine, hanno potuto nutrirsi delle riflessioni degli studiosi, di un intenso dibattito pubblico, di una attiva mobilitazione dei cittadini. C’è tanto su cui riflettere, per l’anno che inizia, per gli anni che verranno.