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di Antonio Polito

Corriere della Sera, 12 dicembre 2023

L’imminenza del Natale: in questa terra si intreccia la storia di molti popoli e delle tre grandi religioni monoteiste. Tutto obbliga l’Occidente a tirare un bilancio della guerra e a cercarne la fine. C’è un “meme” che gira sul web in questi giorni. Dice: “Miliardi di persone in tutto il mondo stanno per celebrare il compleanno di un ebreo nato a Betlemme più di duemila anni fa, ma non credono che gli ebrei abbiano vissuto lì prima del 1948”. È un modo, certo provocatorio, di ricordare un po’ di storia ai nemici di Israele. Ma dovrebbe ricordarla anche a Israele. Il suo diritto ad esistere nei confini precedenti alla guerra del 1967 è fuori discussione. Eppure quella terra tra il Giordano e il mare è in qualche modo anche nostra, dei cristiani; ed è anche loro, degli arabi e dei musulmani che l’hanno abitata e la abitano. Perché vi si sono intrecciate le storie di molti popoli e delle tre grandi religioni monoteiste.

L’imminenza del Natale, il compleanno di cui sopra, obbliga dunque tutto l’Occidente a tirare un bilancio della guerra di Gaza fin qui, e a cercarne la fine. Si dice che l’amministrazione Biden abbia concesso solo altre tre settimane a Netanyahu per la sua offensiva militare. Vorrebbe dire una tregua entro l’anno nuovo. Ma il governo di Gerusalemme vuole più tempo, almeno un mese e mezzo prima di considerare conclusa l’”operazione”. Il nuovo attacco di terra, ripartito dopo la pausa per il rilascio degli ostaggi, più distruttivo dei precedenti perché protetto da una strategia di preventiva “polverizzazione”, punta a poter dichiarare la “sconfitta” di Hamas e dunque la “vittoria” di Israele. Magari con le foto di una resa di massa dei miliziani, o meglio ancora con l’annuncio dell’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo dell’organizzazione nemica che forse si nasconde nei tunnel di Khan Yunis.

Ma il problema di ogni guerra al terrorismo, che non si combatte contro Stati ma contro entità di fanatici votati al sacrificio, indifferenti alla sorte dei civili tra cui si nascondono, è che è sempre molto difficile stabilire che cosa sia la vittoria, e quando la si possa considerare raggiunta.

Dal punto di vista di Hamas, per esempio, è molto probabile che la gravità delle devastazioni e il numero delle vittime siano state considerate fin dall’inizio come un successo, più che una perdita. C’è da credere che i capi di quella organizzazione, che conoscono Israele meglio di chiunque altro, abbiano ordito e realizzato il massacro del 7 ottobre nella perfetta consapevolezza della reazione militare che avrebbe provocato. Volevano una guerra, altrimenti non l’avrebbero cominciata. E una guerra che sapevano benissimo di non poter vincere sul terreno. Per chi ha apertamente detto di aver bisogno del sangue della sua gente, di donne vecchi e bambini, al fine di portare a compimento il disegno di eliminare Israele, il conteggio delle vittime palestinesi, giunto a un’intollerabile cifra, è ogni giorno un tragico bollettino di vittoria. Ci sono due Gaza: una all’aperto che soffre e muore, e un’altra che si nasconde sotto terra per avvantaggiarsene.

Le finalità della guerra di Hamas erano perciò altre: fermare gli Stati arabi in procinto di firmare accordi con Israele, e riaccendere nel mondo l’odio per l”entità sionista”, mescolato sempre più a un antisemitismo di tipo nuovo, che ha fatto la sua comparsa perfino nelle roccaforti liberal delle università americane. Bisogna ammettere che entrambi questi obiettivi sono stati in buona parte raggiunti. E che dunque la prosecuzione della carneficina dei civili e l’aggravarsi della crisi umanitaria rischiano di rafforzare Hamas dentro e fuori la Palestina.

D’altra parte Netanyahu non si trova nelle condizioni politiche ideali per prenderne atto. Visto che è considerato da gran parte dell’opinione pubblica come il responsabile numero uno del disastro di sicurezza del 7 ottobre e della divisione politica che ha indebolito il Paese, per lui la prosecuzione della guerra equivale alla conservazione del potere. Quando tutto questo finirà, probabilmente anche la sua carriera politica finirà. L’asticella dell’idea di “vittoria” che vuole vendere al suo popolo, per poter dichiarare vendicata la giornata del 7 ottobre, è dunque molto elevata. E non è detto che sia raggiungibile.

Intendiamoci: annientare un’organizzazione terroristica non è un obiettivo impossibile o utopico. Alla fine l’Occidente c’è riuscito con Al Qaeda, e c’è riuscito con l’Isis. Le anime belle che protestano contro l’uso della forza anche quando è l’unico modo per impedire che qualcuno la usi contro di noi sono state più volte smentite dai fatti. E in ogni caso la battaglia di Gaza ha già sicuramente ridotto di molto e per molto l’efficienza assassina di Hamas.

Ma di certo non basta la forza militare per estirpare un cancro come quello che da anni affligge e condanna la gente di Gaza a miseria e sofferenza. La politica, la diplomazia, la propaganda, gli aiuti umanitari, gli investimenti, sono altrettanti armi indispensabili per garantirsi quella superiorità morale che fa vincere davvero le guerre. Mentre invece il punto debole di Israele è che la sua leadership non ha ancora indicato, dopo 67 giorni di guerra, come immagina la pace, che cosa accade il giorno dopo la fine dei combattimenti, e chi sostituirà Hamas una volta che, sperabilmente, sia stata sconfitta.

È giunto dunque il momento, e il tempo del Natale non potrebbe essere migliore, perché l’Occidente, cioè gli Usa e l’Europa, indichino a Israele la via della tregua. L’Europa ogni tanto ci prova, seppure in ordine sparso e senza argomenti efficaci. Gli Stati Uniti di argomenti invece ne hanno molti, a partire dal massiccio rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti con cui garantiscono a Israele la prosecuzione del conflitto, e dal rischio che si allarghi al nord con Hezbollah e sul Mar Rosso con gli Houthi dello Yemen, anch’essi alleati di Hamas e dell’Iran. Perché è vero che Israele ha diritto a difendersi. Ma anche l’Occidente si gioca qualcosa in Medio Oriente.