di Eshkol Nevo
Corriere della Sera, 4 agosto 2024
Lo scrittore: credevo che la tregua sarebbe arrivata. E invece ora tutto brucia. Aspettavo il cessate il fuoco. Credevo che sarebbe arrivato. Volevo scrivere di cuori traboccanti di speranza, di persone che tornavano a sorridere. Di case ricostruite ai due lati del confine. Ma il cessate il fuoco non è arrivato, anzi: tutto brucia. Le fiamme si stanno diffondendo su altri fronti. Al supermercato ci sono lunghe code. La gente compra pacchi di acqua e powerbank per i cellulari, per essere pronta a permanenze prolungate nei rifugi.
Il cessate il fuoco non arriva a causa degli interessi politici di Netanyahu? Oppure perché Hamas mira a trascinare l’intera area in una guerra totale? Non lo so. È difficile stabilirlo. Quel che è chiaro, inequivocabile, è il modo in cui la quotidianità di guerra corrode l’anima degli abitanti di Israele. Le persone scoppiano a piangere così, senza motivo, mentre ti parlano. Bevono di più. Fumano più erba, nel tentativo di smorzare la paura. Ci si sente a disagio a essere allegri. Persino ai matrimoni si parla degli ostaggi.
E c’è un altro fenomeno, di cui nessuno parla: lo stillicidio di israeliani che vanno all’estero. Alcuni partono per respirare aria libera da missili per qualche settimana e poi tornano. Altri, come la famiglia della migliore amica di mia figlia, non riescono più a sopportare tanta tristezza ed emigrano, non torneranno più. Si parlano tre volte al giorno con FaceTime, mia figlia e la sua amica. Io so, e non le dico, che fra un pochino si parleranno solo una volta al giorno, e poi una alla settimana, e poi una all’anno.
Non giudico chi non ce la fa più. Può darsi che la loro scelta sia più logica, più responsabile. Ma io rimango. Con i miei amici e i miei studenti e la mia lingua. Senza la mia lingua non posso vivere. E continuo a spostarmi da un posto all’altro, ad ascoltare, a tentare di aiutare, a ricordare.
Scendo verso il Sud per un incontro con i lettori. È il primo incontro da quando è cominciata la guerra, mi avverte Uri, il direttore della biblioteca, mentre sono già in viaggio, perciò non so quante persone interverranno. Sarò contento comunque, lo tranquillizzo al telefono. Soprattutto sarò felice di vedere te. Ci conosciamo da ormai vent’anni, Uri e io. Mi ha conquistato il giorno in cui gli ho chiesto, dopo una vacanza estiva, com’era andata con la famiglia, e lui ha risposto: un incubo. Chi è disposto ad ammettere di non essersi goduto una vacanza in famiglia può diventare mio amico. Quando entro nella biblioteca ci abbracciamo e mi offre un whisky. Fino a oggi mi aveva sempre offerto caffè o tè. All’improvviso whisky. Facciamo un brindisi e gli chiedo come sta. Non granché, mi risponde. Soffro di disturbo post-traumatico da stress. Diagnosticato. Ti hanno richiamato in guerra? Sono sorpreso, deve avere almeno sessant’anni. Non esattamente, risponde. E spiega: sabato 7 ottobre ha fatto l’errore di guardare uno dei video diffusi da Hamas e ha visto qualcosa che ha fatto riemergere gli orrori a cui aveva assistito mentre era soldato durante la seconda guerra del Libano. Da allora di notte non dorme. Si sveglia per gli incubi. Di giorno tira avanti a malapena. Ha perso venti chili. Non so cosa dire, perciò taccio insieme a lui e gli chiedo di versarci un altro whisky. D’un tratto mi sorge un dubbio. Ascolta, gli dico, fra i brani che ho in programma di leggere durante l’incontro alcuni rischiano di riattivarti il trauma. Pensi sia il caso che li elimini? Leggi quello che vuoi, mi dice. Se sarà un problema, posso sempre tornare nel mio ufficio.
Una settimana dopo l’incontro m’informo di come sta. Sulla mia testa c’è una nuvola, scrive. A volte è piccola, quasi inoffensiva, poi di colpo diventa un nuvolone nero e minaccioso. Leggo e penso che senza rendersene conto ha descritto perfettamente lo stato d’animo di un intero Paese.
Finita una visita dal dentista mi accorgo di non avere il tempo di riaccompagnare a casa le mie figlie, perciò chiamo un taxi usando un’applicazione. Come si chiama l’autista? chiede la grande. Ahmad, rispondo. Annulla la prenotazione, dice, è arabo. Neanche per idea, ribatto indispettito. Che differenza fa se è arabo. È un essere umano proprio come te e come me. Ed è cittadino di questo Paese come te e come me. Le mie amiche fanno così, annullano se vedono che il taxista ha un nome arabo, mi spiega. Annulla, papà, non voglio correre rischi. Neanche per idea, mi impunto. Ormai è diventata una questione di principio. Di educazione. Se preferite potete andare a piedi. La sorella minore ascolta la discussione in silenzio, in attesa di sentire come va a finire. Il tassista arabo arriva. Salgono a bordo e arrivano a casa sane e salve, ovviamente. Ho vinto la battaglia. Ho trasmesso il giusto messaggio alle mie figlie. Perché allora in bocca mi è rimasto il gusto amaro della sconfitta?
Mio padre, che ha ottantadue anni, è diretto a nord, al confine con il Libano. Vuole controllare in che condizioni è la nostra casa al kibbutz Malkia. Ci ha vietato di raccontare alla mamma che si trova nella zona che Hezbollah bombarda senza sosta. Lei impazzirebbe dalla preoccupazione ed è già debole di cuore. Dalla macchina mio padre mi comunica: al cancello di Malkia ci sono i soldati di guardia, ma basta dirgli: abito qui, e ti lasciano entrare. La casa è intera, continua a riferire. Non è stata colpita e nemmeno saccheggiata. Ma il giardino è inselvatichito. Il kibbutz è deserto, nessuno cammina per i sentieri, e nella piscina, che di solito d’estate è affollata di gente in vacanza, non c’è acqua. In quella piscina ho insegnato alla mia figlia minore a nuotare. Non riusciva, ci sono voluti giorni. Si teneva al galleggiante, si teneva a me, si rifiutava di mollarmi. Ormai credevo che sarebbe andata avanti così all’infinito, stavo perdendo le speranze, quando di botto, senza alcun preavviso, ha lasciato la presa e nuotato fino alla sponda opposta, da sola, a grandi, belle, bracciate, e poi è tornata da me entusiasta, ce l’ho fatta! Hai visto? Hai visto? La prossima volta vengo con te, dico a mio padre. Sei sicuro? mi chiede. Sì, penso, la nostalgia è più forte di tutto.