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di Alessia Candito

La Repubblica, 24 aprile 2024

Il rapper, che con i suoi laboratori musicali dà ai giovani strumenti e occasioni di esplorare altre strade, lancia l’allarme: “Nell’ultimo anno la situazione è peggiorata. Lavoro da quindici anni nei minorili, adesso i ragazzi hanno paura, rabbia come mai prima d’ora”. Rapper noto, scrittore, “Kento”, al secolo Francesco Carlo, ormai da tempo usa il rap per parlare con i ragazzi degli Istituti penali minorili di tutta Italia. Originario di Reggio Calabria, ne ha visti tanti di amici e conoscenti inciampare, deragliare, perdersi, ma anche trovare la via per ricostruire la propria vita. “Basta un foglio di carta e una penna bic per far parlare questi ragazzi che spesso non hanno alcun tipo di interlocutore”.

Al Beccaria, che ieri si è scoperto regno di terrore gestito da un gruppo di poliziotti che hanno fatto di pestaggi regolari un metodo, ci ha lavorato...

“Ma non ci torno dal 2021. All’epoca non ho mai avuto cognizione di una situazione del genere altrimenti l’avrei denunciata a gran voce”.

Nel corso dei suoi laboratori le è mai capitato?

“Attraverso la musica i ragazzi riescono ad esprimere quello che in una conversazione normale non direbbero, condividono delle fragilità che in altre condizioni non ammetterebbero mai”

Lì o altrove è mai successo che usassero la musica per parlare di violenze subite?

“Il tema della violenza è purtroppo molto comune. A volte si dà come per scontata, come se si trattasse di una sorta di rito di passaggio e non di un abuso. Di certo, c’è molta omertà su quello che avviene, anche molta paura di parlarne”.

È mai venuto a conoscenza di episodi specifici?

“Sì, sia per via diretta, perché qualcuno ne ha parlato o scritto, sia perché qualche compagno li ha raccontati. Li ho segnalati a chi di competenza, ma non posso entrare nel dettaglio”

Dopo anni di lavoro di recupero nei minorili, che quadro si può fare della situazione attuale?

“I ragazzi hanno paura, si sentono sempre più soli. Le recenti modifiche legislative, a partire dal decreto Caivano, hanno riempito le strutture. In un anno si è passati da circa 300 a più di 500. Ci sono casi in cui i ragazzi dormono per terra perché non ci sono posti disponibili, psicologi ed educatori sono proporzionalmente sempre meno”.

Risultato?

“È in assoluto la strategia peggiore per affrontare il problema. Parla alla pancia della gente, ma non rappresenta una soluzione. Lo dicono le statistiche che i minori che accedono alle misure alternative sono quelli che meno vanno incontro a recidiva, ma si va esattamente nella direzione opposta. Ogni ragazzino detenuto è un monumento al fallimento della politica”.

Chi sono i ragazzi che finiscono negli istituti penali minorili?

“Sono gli ultimi degli ultimi. Non sono necessariamente quelli che hanno commesso i reati più gravi, ma di certo i più soli. Quelli che non hanno una casa o una famiglia che permetta di accedere a una pena domiciliare, che non sono seguiti da un legale, gli stranieri sebbene i reati siano generalmente meno gravi, chi è appena arrivato in Italia, chi non parla l’italiano, o chi da italiano non sa leggere e scrivere. Sono ragazzi a cui spesso basta poco per capire che una strada diversa, una vita diversa è possibile, ma in queste condizioni rischiano di non avere neanche l’opportunità per intuirlo o per provare a crederci”.